L'Editoriale
Mercoledì 23 Maggio 2018
L’antidoto al sovranismo
è ancora l’Europa
La fusione tra sovranismo e populismo è un fenomeno che, riemerso dopo una lunga latenza, sta sconvolgendo la geografia politica di tutto l’Occidente. Non ne è certo esente il nostro Paese, come dimostra il risultato elettorale del 4 marzo scorso. Lega e M5s, le due forze politiche che hanno conseguito un significativo successo, hanno condotto una campagna elettorale che le ha viste unite nell’agitare soprattutto il problema dei condizionamenti che derivano allo Stato dall’esterno, fino quasi ad annullarne i poteri decisionali. Le proteste contro questi vincoli esterni, rappresentati dalla dominante burocrazia europea e dall’attività invasiva delle multinazionali, non sono certamente una specialità italiana.
La Brexit e il successo di Donald Trump hanno questa comune radice, in quanto hanno rappresentato una rivolta dei settori popolari verso quelle realtà sovrannazionali che comprimerebbero il potere dei singoli Stati. Il sovranismo ha poi ulteriori caratteristiche. In primis, come testimonia il rigetto da parte di Trump di importanti trattati economici internazionali, propone il rifiuto del «multilateralismo», che è sorto sulle macerie degli sconvolgimenti bellici del ’900. È stato ritenuto, dopo la Seconda guerra mondiale, il metodo più efficace per dirimere i conflitti internazionali attraverso una rete di regole che limitassero al massimo le contrapposizioni tra Stati e, quindi, il rischio di conflitti poco e male mediabili. Strettamente correlata con questa visione è la scelta del «protezionismo», con la difesa delle produzioni nazionali attraverso l’applicazione di dazi sulle merci importate, come ha iniziato a fare l’amministrazione Trump. Queste misure portano inevitabilmente a ritorsioni di vario tipo in campo economico tra le varie nazioni, le cui conseguenze possono essere assai gravi per le economie marcatamente esportatrici come la nostra. Di protezionismo si parla ormai anche in Europa. Ha rappresentato l’humus ideologico della «democrazia illiberale» di Viktor Orban, che ha ottenuto un terzo mandato nel nome della difesa assoluta della produzione e dei confini nazionali e della tutela dell’identità etnica ungherese. Le preoccupazioni che molti economisti avanzano oggi, per le possibili conseguenze negative derivanti dalla diffusione di politiche sovraniste, hanno sollecitato le analisi di illustri personalità del passato. Nel gennaio del 1945, Luigi Einaudi con il saggio «Il mito dello Stato sovrano», osservando una Europa quasi cancellata dal nazionalismo, individuava proprio nello Stato sovrano il nemico numero uno della civiltà: «Lo Stato sovrano, che entro i suoi limiti territoriali può far leggi, senza badare a quel che avviene fuori di quei limiti, è oggi anacronistico e falso». Nello stesso tempo tratteggiava le caratteristiche che dovevano essere proprie degli «Stati Uniti d’Europa» come unico antidoto al ripetersi di nuovi conflitti: «Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli Stati restano sovrani per tutte le materie che non sono delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate. Così anche le guerre diventeranno più rare, finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo del sovranismo».
Da queste lucide riflessioni emerge come il punto cruciale dove la crisi della sovranità possa risolversi o al contrario degenerare, ieri come oggi, è l’Europa, intesa quale dimensione minima per poter seriamente competere nei mercati internazionali e nelle tensioni geopolitiche. L’antieuropeismo che anima, oggi, vari movimenti sovranisti è legato soprattutto alla circostanza che la sovranità europea è burocratica e non popolare. Ma senza la dimensione europea la sovranità dei singoli Stati è puramente illusoria.
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