La vittoria di Renzi,
il nodo alleanze

Non è certo una sorpresa che Matteo Renzi abbia vinto il primo round delle primarie del Partito democratico, quello che coinvolgeva i soli tesserati del Pd. La domanda semmai riguardava la percentuale con cui l’ex segretario avrebbe sconfitto il più forte dei suoi competitori, Andrea Orlando. E la risposta è che Renzi ha stravinto sul ministro della Giustizia: sette militanti su dieci sono con lui, gli altri tre se li dividono appunto Orlando e, in piccola piccola parte, il governatore della Puglia Michele Emiliano. Il quale solo per miracolo resta in partita per il secondo tempo: infatti, se avesse raccolto meno del cinque per cento dei voti sarebbe stato escluso dalla gara che il 30 aprile chiamerà ai «gazebo» gli elettori e i simpatizzanti del Pd.

Dunque la vera notizia è che il partito è saldamente nelle mani di Renzi: a lui i militanti consegnano le chiavi di casa e ne accettano la guida, qualunque cosa dicano quelli della sinistra interna secondo i quali il Pd si sarebbe trasformato nel PdR, cioè nel partito personale del capo, dove decide uno solo e gli altri seguono. Se quell’«uno» decide è perché la stragrande maggioranza del partito vuole così, questo dice il voto nei circoli. Piaccia o non piaccia.

Certo Andrea Orlando è stato penalizzato dal fatto che molti che lo avrebbero potuto votare se ne sono andati dal Pd, hanno fondato un altro partito e hanno in animo di tornare sui loro passi ad un’unica condizione: che Renzi sparisca, circostanza che, almeno per il momento, non si realizza. Gianni Cuperlo fa appello agli ex compagni perché il 30 vadano a votare per Orlando, ma questo è un gesto abbastanza disperato: non a caso i bersaniani-dalemiani hanno risposto picche. Quanto ad Emiliano, verrebbe da dire: tanto rumore per nulla, il populismo in salsa meridionale, così simile a quello del sindaco di Napoli De Magistris, ha decisamente uno spazio infimo nel partito di governo.

Ma se il partito è «renziano», ora bisognerà capire se tale sarà anche il tradizionale elettorato di centrosinistra: lo premieranno i cittadini che avranno voglia di recarsi ai gazebo? E soprattutto: continueranno a votarlo, e in che misura, quando si tratterà di andare alle elezioni «vere», alle prossime politiche? Quanti si disperderanno e quanti, scontenti, si rifugeranno nell’astensione?

Queste sono le vere domande, anche perché il Pd affronterà la gara con il movimento 5 Stelle – attualmente, secondo i sondaggi, primo partito italiano – indebolito da una scissione che, sottraendo tre o quattro punti percentuali, lo ha portato al secondo posto della classifica. E inoltre non è neanche escluso che, dopo la conclusione delle primarie e la prevedibile nuova vittoria di Renzi, anche altri se ne vadano dal Pd e raggiungano a nuoto l’arcipelago dei partitini in cui si va spezzettando la sinistra: Bersani, D’Alema e Speranza con il loro «Articolo 1-Mdp», e poi Giuliano Pisapia e il «Campo Progressista», senza dimenticare gli ex vendoliani di Sinistra Italiana. Tutti costoro proclamano che intendono «riunire la sinistra»: in realtà ognuno si è costruito la propria casetta e lì aspetta la grandine grillina. L’importante per tutti è che Renzi esca dal campo, anche a costo di consegnare la vittoria all’avversario più agguerrito: la sua idea di centrosinistra tarato sul riformismo moderato è inaccettabile per parte degli eredi del Pci-Pds e tanto più per i reduci di Rifondazione Comunista, per i quali il grido di guerra è «mai con Matteo!», come disse Fabio Mussi alla convenzione degli scissionisti. Forse solo Pisapia potrebbe allearsi con il Pd ma a patto, avverte, che nessuno lo consideri «una stampella».

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