La violenza dei forti
Il rischio del silenzio

C’è qualcosa di insopportabile nella violenza commessa dai forti sui deboli, dal gruppo sul singolo. È la codardia di chi fa leva su un’appartenenza più grande, di chi si fa scudo delle proprie ideologie d’odio. Nei giorni scorsi è stata data notizia di un bengalese di 27 anni, lavapiatti in un ristorante di Roma, regolarmente residente nella capitale insieme alla moglie, pestato a sangue a notte fonda dopo il lavoro da un gruppo di giovani minorenni, tranne il «capo» diciottenne che ora deve rispondere dell’accusa di tentato omicidio. Nella stessa notte, e sempre nel centro di Roma, un egiziano è stato aggredito al grido di «sporco negro». Per non parlare di altri fatti dello stesso tenore riportati spesso dai media in spazi ridotti che danno conto di senzatetto (italiani o stranieri) presi a calci e pugni per il moto di fastidio che generano alla sola vista di chi concepisce la vita come un eterno, incessante conflitto per «fare ordine». Gli aggressori sono spesso giovani abitanti delle periferie, ma non sempre, e agiscono appunto in gruppo.

I media li etichettano come «branco» e scandagliano le loro esistenze con una certa superficialità, se la motivazione finale per tali aggressioni è sempre la «noia» di vivere, in quartieri dove «non c’è niente da fare» se non passare le giornate al bar e le notti appunto in avventure violente. Quasi a giustificare pulsioni che hanno una radice più profonda e chiamano in causa anche la responsabilità di adulti assenti, o troppo presenti nel trasmettere il modello di una vita come arena nella quale prevalere a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Del resto è il modello che imperversa anche in alcuni programmi televisivi e nei social, che accolgono sfoghi d’odio contro il prossimo.

A Roma in questi giorni è stata aperta un’inchiesta su Forza Nuova, accusata di aver istituito una sorta di «scuola dell’odio» rivolta ai giovani contro gli stranieri.

Ma il problema non sono solo Forza Nuova e il razzismo. In Sicilia è in corso la campagna elettorale per le regionali di domenica e un candidato assessore di un partito che si proclama incarnazione del nuovo ha scritto su Twitter «ti bruceremo vivo», rivolto al deputato Ettore Rosato, «padre» della nuova legge elettorale Rosatellum. Poi sono arrivate le scuse, che non attenuano la gravità dell’affermazione. Il fatto conferma come anche nella politica il linguaggio abbia superato i confini del vivere civile, senza sentire la responsabilità pubblica della parola, del suo valore e delle sue possibili ripercussioni. I migranti sono spesso l’obiettivo principale, etichettati genericamente come categoria portatrice di reati. Gli stranieri vittime di reati invece sembrano appartenere alla specie dei danni collaterali, dal caporalato alle truffe sul rilascio dei permessi di soggiorno, allo sfruttamento della prostituzione ai pestaggi come quello di Roma.

Ma torniamo proprio lì. Si dirà che i pestaggi «a sfondo razziale» sono casi isolati: e ci mancherebbe. Ma il punto è la preoccupazione più generale rispetto a una violenza verbale e fisica che deve trovare gli anticorpi e le reazioni per essere denunciata pubblicamente e sanzionata, contenuta se non sconfitta del tutto. Questa violenza è una delle cifre che contraddistinguono le epoche di crisi economica e culturale. Ma noi uomini della postmodernità, fieri del nostro progresso scientifico e tecnologico, cosa abbiamo da dire di fronte a questa violenza? Lo scrittore Isaac Asimov una risposta l’aveva: «La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci».

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