L'Editoriale
Giovedì 11 Agosto 2022
La tragedia in carcere, se il giudice non si dà pace e il sistema da cambiare
Il commento. Si chiamava Donatella, aveva 27 anni ed era detenuta nel carcere di Montorio, frazione di Verona, in seguito a piccoli furti per procurarsi la droga dalla quale era dipendente. È qui che qualche giorno fa si è tolta la vita. Una giovane risucchiata da quell’infernale gorgo che sono gli stupefacenti e contro i quali Donatella stava cercando di disintossicarsi. Ma in quel gorgo è facile cadere, molto più difficile uscirne.
Una vicenda che non avrebbe fatto notizia, se non per quello che è successo al funerale celebrato a Verona, durante il quale un’amica della vittima, Micaela, ha letto una missiva inusuale: «Conoscevo Donatella dal 2016, avevo lavorato con lei e per lei in tante occasioni - vi è scritto dal giudice di Sorveglianza Vincenzo Semeraro, del Tribunale di Verona - ultima delle quali nel marzo scorso, allorché la inviai in comunità a Conegliano. Inutile dire che la sensazione che provo è quella di sgomento e dolore. So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più. Il sistema ha fallito. Capisco chi sta provando rabbia». Una lettera piena di rammarico e di sofferenza. È raro che un magistrato prenda posizione pubblica mostrando umanità ed empatia verso la persona di un caso che ha seguito. Andrea Mirenda, anch’egli magistrato di Sorveglianza veronese, ha voluto essere presente con il cuore alle esequie inviando un messaggio alla famiglia per «esprimere la mia più dolorosa vicinanza in questo tristissimo momento».
Il legale di Donatella stava lavorando per farle ottenere una misura alternativa al carcere. Per chi è tossicodipendente, e quindi malato, non può essere il luogo idoneo per ripartire, per scontare reati non socialmente pericolosi come piccoli furti. È il sistema fallimentare del quale ha scritto il giudice Semeraro. Che ha altre pecche. Nel 2022 si sono tolte la vita nelle celle già 47 persone, Donatella è la 48ª, 16 volte in più che all’esterno. La fotografia desolante dei penitenziari italiani è dell’associazione Antigone, che da anni monitora la situazione: tre persone in 7-8 metri quadrati (la legge ne prevede almeno tre ciascuna: non rispettandola, abbiamo subito condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo), temperature che nelle celle superano i 40°, assenza di frigoriferi e ventilatori, finestre sigillate e aria che non circola. Sono le condizioni nelle quali vivono parte dei 54.841 detenuti in Italia (a fronte di una capienza regolamentare di 50.900). Il 35% fa uso di droghe e solo tre penitenziari (su 189) sono «dedicati» al contrasto della tossicodipendenza, con servizi psichiatrici e psicologici.
In alcuni istituti l’acqua viene razionata, come ad Augusta. A Santa Maria Capua Vetere, invece, manca ancora l’allaccio alla rete idrica comunale. La nostra Costituzione, spesso citata per altre vicende, all’articolo 27 dice che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma quale rieducazione: per ammissione degli stessi direttori, oggi molti penitenziari italiani sono criminogeni. Spesso se ne esce peggiori di quando si è entrati. Il 35% di chi è in cella poi è in carcerazione preventiva (quindi ancora presunto innocente secondo la Costituzione) e la metà verrà assolto o prosciolto in base alla media storica.
I ministri Orlando e Cartabia hanno cercato di migliorare la situazione anche investendo sulle pene alternative al carcere. Chi ne beneficia ha una recidiva dei reati del 20%, chi trascorre tutto il periodo di condanna nei penitenziari invece dell’80%. E chi è malato di droga non deve stare in cella ma nelle comunità. Aveva ragione il grande Fëdor Dostoevskij: «Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni».
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