L'Editoriale
Venerdì 26 Maggio 2017
La tassa su internet
rompe un tabù
Il passo compiuto dalla Camera per andare verso una tassazione del web è ancora timido e contraddittorio, ma segna una tendenza e soprattutto rompe un tabù, quello dell’innocenza e della neutralità della rete, in cui la gratuità del servizio è fuorviante, quasi che tassare il nulla sia uno sfregio. Non è così, perché il valore di queste aziende del mondo immateriale è in realtà molto pesante in Borsa. Per ora, la soluzione all’italiana sembra più una sorta di patteggiamento, per non dire condono, secondo il modello degli accordi «spontanei» raggiunti dall’Agenzia delle Entrate con due giganti come Facebook e Google, che apparentemente non hanno faticato a trovare accordi per centinaia di milioni.
Come se sapessero loro per primi che si tratta di una mancia, per tacitare una sorta di accattonaggio di Stato. Qualche centinaia di milioni sono nulla per questi giganti, il cui costo principale non è quello del lavoro, ma è la ricerca. Un algoritmo vale più dell’intera Mirafiori di un tempo. Nell’insieme, arrivano nelle casse comuni introiti insperati, ma non è un bello spettacolo, perché uno Stato si basa sulla serietà del patto fiscale e ha in questo scambio la sua stessa ragion d’essere.
Meglio così che niente, si dirà, e nessuno ha osato votar contro, salvo lo spirito liberale isolato di un Enrico Zanetti libero da vincoli di Esecutivo, da quando è stato dimenticato dal Governo Gentiloni. È pur vero che una questione del genere si può risolvere solo a livello europeo e nessun singolo Stato può correre il rischio che ci sia un vicino di casa che offre condizioni migliori. È avvenuto per ora a solo vantaggio dell’Irlanda, il cui erario ha fatto ponti d’oro alle multinazionali della disintermediazione, chiudendo un occhio sul doppio passaggio che ha eluso, anche lì, pagamenti miliardari. Ma l’Irlanda ha rifiutato di ricevere i 16 miliardi che Bruxelles vuole che le siano versati da Apple per un quindicennio di sostanziale evasione, pensando ai vantaggi comparati non solo economici ma di occupazione e sviluppo di cui ha goduto grazie a questi trattamenti favorevoli. Che un Paese Ue sia un paradiso fiscale è in realtà una cocente sconfitta per un’Europa in cui sarebbe ora di trovare un accordo per stabilire che questi giganti, quando hanno una stabile organizzazione in un punto qualsiasi della Comunità, l’hanno in Europa, terra di tutti.
L’intesa non è però mai all’ordine del giorno, perché tocca l’autonomia fiscale nazionale più complessivamente, che non si vuol mai devolvere. Lo Stato tassa pesantemente tutto ciò che si muove e respira. Perché non può farlo verso un settore, quello di internet, che muove il 56% della popolazione italiana, coinvolgendo ogni mese più di 30 milioni di utenti unici, che restano attaccati ai vari schermi del web per una media di quasi 54 ore del loro tempo? Vero è che questi utenti non pagano pressoché nulla ai padroni della rete, ma anche le Tv private non chiedono un canone, eppure vengono abbondantemente tassate sugli introiti pubblicitari, che scendono là dove il web continua a salire. Con la crisi, internet in Italia è già alimentato dalla metà di quanto va alla Tv, mentre è arrivato al doppio di quanto va ai giornali. E qui è in gioco un altro valore non negoziabile, quello del pluralismo e della libertà di stampa. Chi frequenta la rete ma non legge giornali era il 5,6% dell’utenza nel 2006, oggi è il 31%. E l’Ocse dice che in Italia c’è un 28% della popolazione che è «analfabeta funzionale», perché 140 caratteri non sono un ragionamento. Bene che internet si diffonda, ma è motivo di sgomento notare che da un lato l’uso del digitale supera il 90% dell’utenza giovane, da 18 a 24 anni, ma in quella stessa fascia di età non si leggono quotidiani, è scarsa la lettura di libri, è assente l’attenzione ai programmi di approfondimento della Tv. Ma se questa è sociologia, accompagnata dal grande dibattito in corso in tutto il mondo sul trionfo della post verità e delle fake news che hanno sul web il loro habitat, tornando sul terreno fiscale non si può non rilevare che un’azienda come Facebook vale in Borsa 300 miliardi di dollari.
E anche il singolo utente non può disinteressarsi della mancanza di tassazione, dimenticando che il suo profilo individuale è di enorme valore sul mercato. Fino a prima del web, la scheda con i dati di una persona fisica poteva valere, negli anni 90, dai 5 ai 20 dollari per il marketing, ansioso di conoscere da vicino i potenziali consumatori. Figuriamoci oggi che, secondo ricerche di Facebook, tramite social si può azzeccare all’80-90% quale è la tendenza politica o l’orientamento sessuale di un utente. Se il fondatore di Twitter si è dichiarato «pentito» dall’invasione nella vita delle persone da parte dei social, qualcosa vorrà pur dire. E allora questo Grande, anzi Grandissimo fratello - amichevole e incombente al tempo stesso - almeno tassiamolo.
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