La sinistra e il vizio
dell’eterna scissione

È ardua impresa rendere comprensibili all’opinione pubblica le ragioni della frammentazione convulsiva della sinistra, ultima quella promossa da Cofferati, Civati, Fassina e dalla sinistra sociale di Landini. La tappa del Tour delle scissioni è scattata con l’ascesa nel Pd e al governo di Matteo Renzi, su una posizione di sinistra liberale, cattolica e socialista, accusato di tradimento liberista-liberale-conservatore: Renzi non è di sinistra.

Qual è il motore di questo indomabile «spirito di scissione», sempre meno comprensibile quanto più aumenta la frammentazione del sistema politico? Una tentazione, non del tutto infondata, è quella di spiegarlo ricorrendo alla categoria del narcisismo, come malattia della modernità, di cui il campione più noto è Varoufakis, il marx-narcisista dall’Ego globale, con molti discepoli nella sinistra italiana.

Ma le categorie antropo-psicologiche non bastano per rendere conto di un fenomeno di lunga durata. Tutto dipende, alla fine, da un dna secolare. Mentre la sinistra laburista origina dal riformismo di Owen e di Mazzini, quella continentale nasce da Marx, il teorico dell’implosione del capitalismo e del comunismo che lo sostituirà. Marx sta alla foce del grande fiume dell’utopismo messianico, la cui sorgente è l’ebraismo, che si è sviluppato lungo i secoli attraverso i movimenti ereticali cristiani.

L’idea di fondo è che «cieli nuovi e terra nuova» sono possibili qui e ora, in questa valle di lacrime. Donde una linea di frattura che attraversa la sinistra fin dal 1864, anno di fondazione della Prima internazionale: massimalisti contro riformisti, comunisti contro socialisti/socialdemocratici. In Italia, dal 1892, anno della fondazione del Psi, la tensione tra massimalisti e riformisti ha accompagnato costantemente la storia della sinistra.

Tra il 1919 e il 1921, anno della fondazione del Pcd’I, i massimalisti sono confluiti nel piccolo nuovo partito comunista, una discreta minoranza nel movimento fascista, sempre in nome di «un mondo altro» e di una concezione giacobina delle avanguardie. Donde viene il volontarismo rivoluzionario? In Italia trova una base ideologica nell’idealismo di Giovanni Gentile, teorico dell’Atto puro, della potenza del Soggetto e, non per caso, filosofo del fascismo. Il quale idealismo, a sua volta, rinvia alle condizioni concrete in cui si è realizzata l’Unità d’Italia: una classe dirigente liberale ristrettissima, al cospetto di un popolo di contadini analfabeti all’85%, percorso, soprattutto al Sud, da venti secolari di rivolta, dovuta alla mancata riforma agraria antifeudale dopo il ’600.

La tentazione di scorciatoie autoritarie di destra o di sinistra per spingere il Paese sulla via della modernizzazione stava nelle cose: il fascismo, il comunismo, l’azionismo («occorre un podestà esterno») sono tre facce di una stessa intenzione, quella di importare la coscienza politica delle masse dall’esterno. Pertanto, il riformismo e il gradualismo sono accusati di tradimento, di cedimento conservatore, di accettazione del mondo così com’è.

Siamo giunti nel terzo millennio, ma la sinistra italiana resta divisa: tra chi crede che «un altro mondo» è possibile e chi pensa che il mondo sia solo quello che abbiamo davanti e che questo si debba/si possa migliorare. Da questa radicale differenza di prospettiva nasce una politica diversa. Che un altro mondo sia possibile, solo pochi sono in grado di vederlo. Si tratta di «eletti», i soli capaci di appoggiare l’orecchio sulla nuda terra e percepire il galoppo di cavalli lontani. Sono i puri, i catari, gli anabattisti, i giacobini e, infine, i comunisti: un’aristocrazia intellettuale e morale. La morale consiste, infatti, nel camminare nella direzione della storia, che questa aristocrazia indica. Chi non cammina verso questo orizzonte luminoso, è automaticamente cieco sul piano intellettuale e corrotto o corruttibile sul piano morale. E il popolo, nel cui nome ci si impanca ad avanguardie? Va in tutt’altra direzione.

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