L'Editoriale
Domenica 14 Agosto 2016
La scuola italiana
non sale in cattedra
Don Milani, il maestro di Barbiana, dei voti poteva far a meno. I suoi scolari imparavano attraverso la motivazione. La molla dell’apprendere scatta nel coinvolgimento personale, qui si pongono le basi perché lo studio non diventi noia e frustrazione. Questo spiega perché le scuole del Nord Europa nei test P.i.s.a. (Program for international student assessment) dell’Ocse ottengono i risultati migliori. Si valuta la partecipazione e quindi il grado di intensità collaborativa con la quale si lavora in classe.
È un indice per capire se lo studio coinvolge tutta la personalità dello studente e non solo la parte cognitiva. Ne discende che l’autonomia viene apprezzata perché rafforza la capacità decisionale. Che è poi quello che valutano i test internazionali, la flessibilità nell’applicare le nozioni acquisite e soprattutto l’interdisciplinarietà, cioè collegare aspetti che a scuola si studiano separati ma che nella vita quotidiana sono un tutt’uno.
Le conoscenze della fisica si intrecciano con quelle della filosofia, della religione e della teologia. Più si avanza nel sapere e più si pone la domanda che assilla l’umanità dalla sua nascita e che ancor oggi i bambini ripetono costantemente: perché? È quindi la motivazione la fonte del sapere.
Va detto che la scuola italiana è ancora ben lungi dal favorire un processo virtuoso in tal senso. Al massimo si stimola la curiosità intellettiva, raramente quella emotiva. La lezione cattedratica frontale prevale ancora sul lavoro di gruppo organizzato. L’acquisizione di nozioni è prioritaria rispetto alla partecipazione e quindi alla condivisione del sapere.
Il modello italiano è quello umanistico. L’uomo è tale in quanto ha l’intelletto. Il resto è secondario. Le condizioni emotive, affettive e il fatto che l’uomo abbia cuore e mani sono subordinati all’apprendimento nozionale. Un approccio che premia i dotati e i vocati ma fa fatica a trascinare gli altri. L’Italia vanta eccellenze scolastiche nella formazione, certo, ma in una società a partecipazione diffusa si pone il problema di convogliare tutti i soggetti, anche i meno dotati.
È una consapevolezza che si sta diffondendo e che ha portato a diverse riforme scolastiche non ultima quella della cosiddetta Buona scuola. Ma mentre una parte d’Italia si sta avviando verso risultati più in linea con la media europea, il Sud e le isole rimangono avvolti nel ritardo che li separa dal resto d’Europa.
I livelli della preparazione scolastica secondo i dati Ocse 2015 sono a simili a quelli della Turchia. Alla maturità 2016 i cento e lode della Puglia sono stati 934 contro i 300 della Lombardia.
Nella classifica Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) risulta che le regioni con la percentuale più alta di «cento e lode» sono le stesse che hanno i risultati più scarsi in sede di rilevamento dell’apprendimento.
Lo studio di Maria De Paola su «lavoce.info» dell’Università Bocconi attesta che una delle cause di questa inflazione di voti è da ricondursi al fatto che le famiglie con ambizioni di status fanno pressioni sui docenti per avere il riconoscimento scolastico della loro condizione sociale. Per gli altri vale lo stesso perché senza un voto alto l’accesso all’agognato posto pubblico diventa più accidentato.
Il voto non è tutto ma è l’unico strumento per dare una certezza ai dati di apprendimento. Svuotarlo vuol dire perdere la possibilità di offrire una preparazione affidabile e misurabile.
Concorrere sul mercato del lavoro è la vera chance per i giovani. Anche al Sud. Dagli anni novanta ad oggi il meridione d’Italia ha avuto un crollo delle nascite. Far figli diventa problematico se non vi sono occasioni per dar loro un futuro.
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