La sconfitta del Pd
nell’Italia precaria

I destini del Pd non sono ininfluenti per il Sistema Italia, specie se i lavori in corso nel centrodestra sono infiniti e con la ruspa e se il dilettantismo dei grillini – come ribadisce la disfatta romana – li rende indisponibili a caricarsi del fardello di una credibile cultura di governo. Per questo i dem, il fulcro del sistema politico e fin qui percepiti come uno dei pochi fattori di stabilità, hanno una responsabilità in più: quella di non ribaltare sul Paese il prezzo dei propri contrasti interni. Con l’Assemblea nazionale di oggi, il Pd dovrebbe iniziare una riflessione autocritica, ma non è detto che si arrivi ad un Congresso
anticipato rispetto alla normale scadenza dell’autunno prossimo.

E questo perché il Pd, stressato e diviso, non sa cosa fare. Tocca a Renzi dare le prime carte e qui si comincerà a capire se la sconfitta al referendum è stata compresa per quel che è: uno stacco fra il prima e il dopo, il capolinea rovinoso di una partita contro tutti, il cui esito è stato l’isolamento. Una cesura traumatica per un partito nato per allargarsi, riscrivere i confini ideologici e amalgamare culture. Ora è sospeso fra una improponibile rifondazione del renzismo prima maniera, che ormai non c’è più, e una comunità, forse sempre con lo stesso leader, ma capace di dialogare e tessere relazioni: con le sofferenze del Paese e con le tante anime del partito. Un Renzi guidato da uno stile più maturo, un animale politico che, nato per combattere e per esprimere un’energia vitale, si troverebbe addomesticato nella griglia di un sistema elettorale proporzionale dove conta di più la capacità di riunire che quella di sfidare: ma è davvero possibile? Qualcosa, però, sta cambiando e lo si è visto nei giorni scorsi quando dal fronte mediano degli ex popolari e degli ex bersaniani è venuto il colpo di freno alla fretta di Renzi di andare alle urne, come a dire che non si ragiona più in una prospettiva esclusiva. Una fase s’è chiusa, bisogna correggere la rotta e – così suggerisce il ministro Martina – andare oltre la vocazione maggioritaria, il che vorrebbe dire mettere in discussione l’impianto concettuale del centrosinistra che precede l’affermazione di Renzi. La sconfitta del Pd ha denunciato i limiti di un leaderismo nel segno dell’ottimismo della volontà veicolato dalla democrazia dell’alternanza, ma non sta scritto che il ritorno al proporzionale, pur corretto e forse obbligato da un sistema a tre (centrosinistra, centrodestra, grillini), sia la soluzione più adeguata in questa fase storica e in un Paese che ha il non invidiabile record di 24 gruppi parlamentari. C’è, poi, una coincidenza di date e di fatti sfavorevole: è arrivata la mina vagante di un altro referendum (quello sul Jobs act e in particolare sull’articolo 18: la riforma delle riforme del governo Renzi), promosso dalla Cgil e che potrebbe riaggregare buona parte del No al referendum costituzionale e pure spezzoni del Sì, oltre all’inchiesta Expo che vede indagato il sindaco Sala. Dunque: a gennaio la Corte costituzionale dovrà giudicare la legittimità dell’Italicum e del referendum sul lavoro (tema ipersensibile, che rimanda all’irrisolta identità del centrosinistra) e nel mentre si dovranno vedere gli sviluppi dell’inchiesta a Milano, l’isola felix del centrosinistra e la bandiera dell’efficienza progressista. Tuttavia nell’attivismo della Consulta si coglie un risultato problematico e poco valutato, ed è quello di un generale arretramento delle riforme fra spallate giurisdizionali e referendarie. La Consulta, infatti, ha già bocciato la riforma Madia della pubblica amministrazione e deve pure pronunciarsi sulla trasformazione della banche popolari dopo la sospensiva decisa dal Consiglio di Stato. Se sommiamo queste decisioni al successo del No, e in attesa di quelle che devono arrivare, si sta progressivamente smantellando l’impianto riformista del governo Renzi che, oltre ad essere stato sostenuto da parti significative del Paese, ha cercato di cambiare il passo dell’Italia restituendoci credibilità internazionale e un relativo potere negoziale in Europa.

L’impressione è che, come spesso capita, con l’acqua sporca si getti via il bambino: la combinazione fra Consulta e referendum rischia di azzerare un processo di cambiamento che, paradossalmente, è stato apprezzato più all’estero che da noi. Siamo in un quadro mosso e contrastato che lascia in eredità uno spartito di soluzioni continuamente riviste e corrette. Un’esistenza stabilmente provvisoria alla quale del resto siamo allenati: nella storia e nella mentalità italiane non c’è nulla di più definitivo di una situazione precaria

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