La satira estrema
che abusa di Dio

Giovedì mattina, Bergamo, via Mazzini. Incrocio un anziano, ultraottantenne certamente. Porta in mano alcuni giornali: sopra, a far da contenitore agli altri, spicca il verde smagliante della prima pagina di Charlie Hebdo: una delle cinque milioni di copie vendute dal giornale satirico alla sua ricomparsa in edicola dopo la strage del 7 gennaio. I media avevano informato che, prima ancora di essere stampato, il giornale aveva suscitato proteste da parte del mondo islamico che contestava, precisamente, l’immagine di Maometto che troneggia in prima pagina.

Per i musulmani, infatti, il Profeta non può essere rappresentato. Charlie Hebdo, per non rinnegare se stesso, ritorna a fare ciò che ha sempre fatto e a correre i rischi che ha sempre corso. Per cui i problemi di cui si è tanto parlato nei giorni scorsi, tornano puntualmente a galla. Uno soprattutto: il «diritto di satira». Di che diritto si tratta e quali sono i suoi limiti?

All’indomani dell’attentato, molte vignette di Charlie Hebdo sono state pubblicate da molti giornali, in omaggio ai giornalisti uccisi. Anche il Corriere ne ha pubblicate diverse, tra le quali una in cui si vedono un rabbino, un vescovo e un iman andare a braccetto e gridare insieme: il faut voiler Charlie Hebdo. Il Corriere traduce: «Bisogna oscurare Charlie Hebdo» (per la verità sarebbe meglio tradurre: «Bisogna mettere il velo a Charlie Hebdo» con una evidente allusione al velo islamico). E poi spiega: «È la prima pagina di un numero speciale uscito nel 2007 in occasione del processo al giornale, citato in giudizio dalla Grande moschea di Parigi e dall’Unione delle organizzazioni islamiche francesi per aver pubblicato le caricature di Maometto che avevano fatto scalpore in Danimarca». Dunque il processo era avvenuto per iniziativa delle autorità religiose ebree e musulmane, non di quelle cattoliche o cristiane. Ma mettere solo iman e rabbino faceva ridere di meno. Mettere invece il vescovo, con tanto di mitria e di pastorale, non è vero ma fa ridere di più.

La satira è questo: deve distorcere la realtà perché è precisamente quella distorsione che suscita il riso di chi legge. È soprattutto la satira, infatti, che usa la caricatura: la realtà non viene riprodotta, fotografata: quello lo fa la cronaca. La satira carica, gonfia, deforma. Deve, altrimenti non è satira. È lì che si misura la differenza fra satira e ironia. L’ironia rispetta la realtà, la satira no. L’ironia sorride, la satira non ride: fa ridere con i suoi eccessi.

A quel punto nascono le domande: esistono limiti agli eccessi della satira o, in omaggio alla libertà, i limiti non ci devono essere? Giorgio Forattini non ha mai rappresentato il Papa nudo, Charlie Hebdo sì. Giannelli, il vignettista del Corriere, usa spesso immagini religiose, ma evita commistioni fra temi religiosi e temi sessuali. Per Charlie Hebdo, invece quelle commistioni sono ricorrenti, quasi una idea fissa. Ovvio che non si può risolvere il problema proibendo tutto, ma è altrettanto ovvio che non si può neppure risolvere non proibendo nulla. Charlie Hebdo manca di quel settore dell’etica dell’informazione che è il rispetto che viene dalle esigenze dell’altro. Spingendo tutto all’estremo si rischia sempre di suscitare reazioni estreme. È quello che è successo ed è quello che, probabilmente, succederà ancora.

Tra le tante attestazioni in favore del settimanale francese ce n’è una molto particolare. «In tutte le religioni, dice, ci sono credenti e estremisti. La differenza è che gli estremisti mettono Dio al loro servizio, mentre i credenti si mettono al servizio di Dio». Sono parole di Guy Gilbert, prete operaio. Verissimo. Con una annotazione, però. La satira che usa e abusa di immagini e temi religiosi, si serve di Dio per un altro scopo: far ridere. Anche questo è un uso improprio di Dio e della religione, e dunque una forma particolare di estremismo. Che non giustifica, certo, nessun’altra forma di estremismo, ma che fatica anche, mi pare, a giustificare se stessa.

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