La sanità degli Usa
e la salute di Trump

Uno, Jerry Moran, dice che la legge è troppo radicale. Il secondo, Jerry Lee, che penalizza la classe media. Il terzo, Rand Paul, che somiglia a quella di Obama e non abbatte le tasse. La quarta, Susan Collins, che penalizza i poveri. Così quattro senatori repubblicani, contro le indicazioni del partito, hanno affondato il secondo progetto di riforma della legge sull’assistenza sanitaria che Barack Obama fece approvare nel 2010 e che fu subito ribattezzata Obamacare. I repubblicani hanno 52 seggi in un Senato di 100, per far passare il nuovo progetto ne sarebbero bastati 50 perché il presidente dell’aula è Mike Pence, il vice di Donald Trump. Ma 52 meno quattro fa 48 e per la seconda volta, dopo un analogo fallimento in marzo, una delle più clamorose e ripetute promesse della campagna elettorale di Trump (abolire, appunto, l’Obamacare) non è stata mantenuta. La vicenda, com’è ovvio, apre un nuovo fronte per il Presidente. E dimostra soprattutto due cose.

La prima è ovvia: varare la riforma sanitaria era stato molto difficile per Obama (e prima di lui persino Bill Clinton ci si era scottato le dita) ed è altrettanto difficile per Trump abolirla. Più o meno per la stessa ragione, cioè il prezzo politico da pagare. Obama aveva dovuto superare l’istinto degli americani a considerare l’intervento dello Stato come il fumo negli occhi, e il conto era poi arrivato a Hillary Clinton sulla strada delle presidenziali. Trump, al contrario, sarebbe pronto a pagare il prezzo politico dell’abolizione ma non è detto che lo siano anche i senatori, che tra un anno e mezzo affronteranno le elezioni di medio termine e devono tener conto delle previsioni (certificate dall’Ufficio Budget del Congresso, organismo non partisan) che parlano di 22 milioni di americani privati dell’assistenza sanitaria nei prossimi dieci anni se il progetto di riforma dei repubblicani dovesse passare.

Ma le motivazioni dei senatori dissidenti sono troppo vaghe e disparate per pensare che si tratti di un problema solo tecnico, tutto interno alla questione sanitaria, e non anche politico. Rand Paul, uno dei falchi della destra repubblicana, in passato ha criticato e deriso Trump in ogni modo ma in Senato ha votato all’87,8% in linea con le sue posizioni. Il punto vero è che nella pancia del partito c’è sempre stata e tuttora resiste una profonda insofferenza per il parvenu di nessuna esperienza che è riuscito a prendersi la Casa Bianca. E il voto sull’Obamacare permette appunto agli insofferenti di colpire duro pur essendo in pochi. Quattro, in questo caso, su 52.

Continua dunque a esser valido il principio per cui i nemici più pericolosi Trump li trova non nel Partito democratico, che è in minoranza ovunque, ma nello stesso partito che l’ha portato alla presidenza e che lui ha portato alla maggioranza al Congresso. Il sogno dei John McCain (assente dalla scene per un problema di salute) e dei Rand Paul sarebbe di trasformare Trump in una figura simbolica, un Presidente pro forma ma neutralizzato nella sostanza. Per impedirgli di far danni, pensano loro. Per continuare con la politica neo-con praticata sia da loro sia dai democratici negli ultimi decenni, pensano altri.

È una pressione insidiosa cui Trump ha già sacrificato, soprattutto in politica estera, gli spunti più interessanti di una fresca e inaspettata carriera. Ed è questa, non quella dell’impeachment, la vera battaglia che dovrà affrontare. Non dobbiamo dimenticare, peraltro, che Donald il Rosso è il primo candidato di fatto indipendente e fuori dai partiti che sia riuscito laddove tutti gli altri (solo in 9 hanno raggiunto il 5% dei voti) hanno fallito. O è abile, e prima o poi dovrà dimostrarlo. O è l’uomo più fortunato del mondo.

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