La rivoluzione
di Marchionne

Quando si chiude un’era legata ad un uomo, come quella drammaticamente annunciata sabato con l’uscita da Fca di Sergio Marchionne, si deve innanzitutto sperare che non si chiuda anche un ciclo. Perché, da molti anni, quella che gli italiani continuano a chiamare Fiat non è più un problema, il ciclo è virtuoso e sarebbe un disastro dovesse ora bloccarsi. Vengono i brividi a pensare ad un eventuale caso Fiat in un’Italia che con molta incoscienza torna a parlare di un’Alitalia controllata dallo Stato o di un’Ilva chiusa per farne un parco giochi. Eravamo per ragioni professionali a Torino, quando arrivò alla guida aziendale questo sconosciuto italo-canadese, portato in Fiat da Umberto Agnelli, il cadetto erroneamente sottovalutato della casata. Ricordiamo bene la diffidenza tutta sabauda che ne circondò l’insediamento, il pessimismo su quello che era quasi solo un groviglio di debiti. Ancora lontana la Torino impensabile con una 5 Stelle sindaco, «la Stampa» passata a De Benedetti o la Juve, allora appena salita dalla B, affidata a Ronaldo.

Fu un doppio colpo da maestro quello che fece la differenza. Innanzitutto, svincolarsi da General Motors, che aveva il diritto di prendersi il boccone intero. Con una spregiudicatezza da giocatore di poker, si fece pagare dai creditori quasi 2 miliardi di dollari, tanto era lo spavento di G. M. di accollarsi un rottame. Restavano i debiti con le banche, una montagna, e dunque la possibilità di diventare proprietarie semplicemente esercitando un’opzione. E qui entrò in gioco la saggezza di un torinese in quel momento capo del San Paolo, Enrico Salza, che era stato il leader influente della Torino non-Fiat per decenni, ma ebbe l’equilibrio di sapere che quello dell’auto non era un mestiere per banchieri.

All’Unione Industriali di Torino, presidente Alberto Tazzetti, organizzammo la prima uscita pubblica ufficiale di Marchionne, e il successo del personaggio fu sorprendente. Ricorse ad una metafora, quella del coniglio di Alice nel Paese delle meraviglie, che corre corre ma resta sempre al suo posto. Era la sua visione critica della politica e del sindacato, ma anche di Confindustria - immobili dentro un mondo in movimento - che avrebbe ispirato le più celebri mosse successive. La clamorosa uscita da Confindustria, assestando però anche un colpo durissimo a Fiom e Cgil, e convincendo gli operai a votare il suo progetto di Pomigliano, prendere o lasciare. Oggi, Torino non è più una capitale monoindustriale (ma è una città rinata) e in Italia i dipendenti sono circa 80 mila su 240 mila, ma i siti Fca sono sei, tengono in piedi il Sud, e in Basilicata si fabbrica una Jeep tutta Usa che ha solo da temere le follie dei dazi di Trump. Quanto all’operazione decisiva di Marchionne, il salvataggio contemporaneo di Fiat e di Chrysler è davvero una case history straordinaria. Salvataggio in duplex con soldi americani di Obama ma anche dei sindacati Usa, subito restituiti, successo mondiale di marchi gloriosi ma obsoleti, come Jeep. Per non dire della valorizzazione di Ferrari, forse l’unica debolezza umana di Marchionne, sedotto dalla rossa, ma restituendole una forza immensa. Nella sua centrata imitazione Crozza ha colto il personaggio: «Non voglio essere ringraziato». Punti deboli di questo gigante dell’imprenditoria sono stati semmai la lunga messa in secondo piano dell’importanza del prodotto, l’errore di non aver creduto per tempo nell’elettrico, essere insomma soprattutto un finanziere. Ma oggettivamente la visione del figlio del carabiniere abruzzese ha comunque sempre guardato più in là, puntando sulla priorità dimensione (tre-quattro produttori auto nel mondo) prevedendo una fase due, dopo Chrysler, con nuove alleanze e nuove strategie.

Resta la parte incompiuta, per sintonizzarsi con il mondo che ha fatto emergere il reddito di un miliardo di persone (acquirenti nuovi?), ma penalizzato il ceto medio, forse superando il concetto di auto come simbolo di libertà individuale, non più da possedere, ma da avere in uso senza acquisto. Un futuro da capire e una nuova rivoluzione che un management, già in parte scelto da Marchionne, dovrà ora sviluppare. Al vertice non si parlerà più in italiano, ma non importa. L’idea fissa vincente di Marchionne è proprio quella di smettere di essere provinciali.

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