L'Editoriale
Domenica 23 Aprile 2017
La realtà da vicino
i rischi del mestiere
Il grande fotoreporter Robert Capa diceva che «non esistono foto belle o foto brutte. Solo foto prese da vicino o da lontano». Le immagini della cronaca raccontano innanzitutto e sempre vicende umane. La vicinanza della quale parla Capa è una posizione mentale e affettiva, non preoccupata di un giudizio estetico. Le foto che più ci colpiscono sono quelle che restituiscono il senso più profondo degli accadimenti, gli sguardi e i volti nei quali possiamo più facilmente immedesimarci. Vale per le immagini, ma anche per gli articoli. Le nuove tecnologie hanno cambiato molto il giornalismo, arricchendolo di possibilità ma sottoponendolo anche ai rischi della sedentarietà.
I progressi delle telecomunicazioni e l’avvento di internet hanno permesso uno sguardo sul mondo più ampio e più veloce ma generato l’illusione di una sapienza accresciuta, raggiungibile attraverso le comodità tecnologiche delle quali ogni redazione è dotata.
Ma la realtà vista da vicino resta insostituibile: per raccontarne la complessità e le sue molte sfumature bisogna essere sul campo. La biografia di Gabriele Del Grande, giornalista e documentarista detenuto in Turchia dallo scorso 10 aprile, ne è una conferma. Gli inizi difficili da collaboratore precario di testate, le serate in un ristorante della periferia romana a fare il cameriere per arrotondare il reddito. Fino all’intuizione che gli ha dato un po’ di notorietà e stabilità: la conta dei migranti naufragati nel Mediterraneo attraverso la ricerca di notizie negli archivi delle principali agenzie di stampa internazionali. Ne è nato un sito, «Fortress Europe», che è anche una testimonianza civile rispetto a un dramma troppo a lungo sottovalutato dai governi del Vecchio continente. Ma la curiosità, dote di ogni buon cronista, ha spinto Del Grande ad andare oltre i numeri per cercare i volti e le persone. I viaggi a sud di Lampedusa gli hanno permesso di conoscere un fenomeno con largo anticipo (accadeva una dozzina di anni fa) rispetto ai ritardi e alle sottovalutazioni della politica e alle ansie contemporanee delle opinioni pubbliche: le storie dei migranti, le loro aspirazioni buone ma anche i traffici, gli affarismi e le violenze di cui sono vittime. Anticipare la storia arrivando prima sulle notizie è funzione primaria del giornalismo. Ma non è a portata di mano: sulla strada si frappongono ostacoli.
È di moda il dibattito sulla post-verità, fenomeno culturale che contrassegnerebbe la nostra epoca. Ma la verità, cioè le responsabilità dei fatti, non è mai stata a portata di mano. C’è molta ipocrisia sull’argomento. Non viene nascosta solo dalle dittature, ma da chiunque se ne ritenga danneggiato. Quanta verità c’è anche in tanti rapporti sociali nella quotidianità? Siamo poi reduci di un’epoca che ha relativizzato la verità, sacralizzando le opinioni: ognuna rispettabile, quando non addirittura da affermare con prepotenza e in spregio alla realtà. Il successo dei social deriva anche da qui: uno spazio dal quale condividere e diffondere il proprio pensiero, che per qualcuno è verità incontrastabile. Le cosiddette «bufale» - le verità che non lo sono - esistono da sempre esistite, propalate dal potere e dagli stessi media che però hanno il dovere di rettificarle, quando sono seri. Semmai i social, con la loro pervasività, sono un moltiplicatore di suggestioni, insinuazioni e sospetti spacciati per realtà, termometro di un umore che contraddistingue questa epoca disgregata. Il rischio è di accreditarli come sola fonte di «autoinformazione», affacciandosi su questa finestra sul mondo senza la controprova della verifica.
L’«autoinformazione» è un genere in voga: il giornalismo, come la politica, è in crisi di credibilità e in fondo - è un pensiero diffuso - se ne può fare a meno, se non arrangiarsi senza ricorrere alla mediazione. Perché si può fare a meno del confronto con la realtà. Ma è una rinuncia che sa di resa. Se non ci occupiamo del mondo, il mondo comunque si occupa di noi come certificano le cronache di questi tempi. Conosciamo i rischi di un giornalismo conformista, paludato e compiaciuto. Ma biografie come quella di Gabriele Del Grande, contrassegnata da un’insaziabile curiosità, non sono rare. Ci aiutano a vedere la realtà da vicino, come le belle fotografie.
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