La rabbia della strada
e la lezione del lavavetri

«Papà, perché quei due signori si danno le botte?». La bimba, tre anni freschi freschi, non capiva la scena. Milano, mattina presto, qualche settimana fa. Strada per l’asilo. Scatta il verde, e a Milano, quando scatta il verde, non basta essere veloci con frizione, acceleratore, prima seconda e terza marcia. Devi essere la fusione perfetta tra Vettel, Hamilton e una spruzzatina di Prost d’annata, se non vuoi che da dietro qualcuno strombazzi la sua isteria, accompagnando il tutto con un gesto che gli elegantoni definirebbero più che eloquente. La scena era esattamente questa.

Solo che a suono e gesto era seguito un gesto di risposta, poi urla, indici puntati, esibizione generosa di medi. E i due – uno su per giù pensionato, l’altro sui quaranta, incravattato e inamidato – erano scesi dalle auto e si erano presi a spintoni, «sfilati» dal resto delle auto come quando in Formula 1 una monoposto si spegne al via. L’incravattato un minuto prima aveva una fretta che più fretta non si può, ma ora la priorità era far capire al nemico come girava il mondo.

L’episodio è uno dei tanti che accadono ogni giorno in ogni grande città. E lungo ogni autostrada. Ogni metro libero sembra l’ultimo disponibile nella vita, per chi guida. Conquistarlo diventa un obbligo, quasi un tema di onore. Un colpo di clacson, una «sfanalata» che ti fa spostare, è uno sfregio da vendicare. Si vedono inseguimenti di chilometri, spesso, per un abbagliante che si ritiene indebito. E a 140 all’ora non si scherza: per la tragedia, anche se non ci si pensa, basta un attimo.

A tutto questo fa pensare l’episodio di tre giorni fa. Automobilista e tassista litigano per un parcheggio. Il video è agghiacciante. I due si picchiano con una violenza cieca, volano pugni e calci, finiscono pure in mezzo alla strada con auto e moto che li sfiorano. Finiscono entrambi in ospedale con l’automobilista, una montagna di muscoli da far impressione, che mozza l’orecchio al tassista. Arresti domiciliari per un parcheggio rubato, o forse solo conteso.

Dice: ormai capita. Il problema è proprio questo: che ormai capita. Che ogni situazione rischia di diventare oggetto di scontro, e che, peggio ancora, ci si sta abituando a tutto, a partire da quei luoghi virtuali, ma in fondo realissimi, dove la rabbia pianta i suoi semi, cresce, si coltiva. Nessuno vuol demonizzare la rete né tantomeno i social network e facebook in particolare, ma è un dato che la violenza stia trovando lì non una valvola di sfogo, ma un moltiplicatore formidabile. Se chiunque si sente in diritto di poter dire e scrivere qualsiasi cosa contro chiunque, tanto poi non succede niente, se c’è chi persino si vanta di essere un «hater» (colui che odia) di tizio o caio, quasi fosse una qualifica che fa curriculum, allora poi è dura riuscire a stupirsi se tre secondi dopo il verde ci sembrano un ritardo irrimediabile, e al quarto secondo un colpo di clacson lo riteniamo quasi un dovere civico.

E non è un problema solo di Milano, «isterica» per vocazione perché rincorre business e fatturati da «imbruttita» d’eccellenza. Certe scene valgono a Milano, come ovunque, perché il virus della rabbia varca i confini, e un po’ ovunque quel parcheggio che avevamo adocchiato diventa l’ultimo libero per l’eternità, da difendere anche a costo della vita. Riflettiamoci, perché non è mai così, e a volte basta un respirone per mandare giù il «torto», spezzare la catena della rabbia e, in fondo, vivere meglio.

Nel frattempo, com’è finita, tra il nonno e l’incravattato? Li ha fatti ragionare il lavavetri che ogni giorno, per almeno 12 ore, a quel semaforo si prende quintali di improperi dagli automobilisti. E tace, e non reagisce. Lui, forse, ha qualcosa da insegnarci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA