L'Editoriale
Venerdì 20 Ottobre 2017
La potenza della Cina
ora esce dal silenzio
Pare che il discorso di Xi Jinping, 64 anni, dal 2012 segretario generale del Partito comunista cinese e dal 2013 presidente della Repubblica popolare di Cina, sia stato una pizza pazzesca. Tre ore e mezza, 66 cartelle di testo, una sola pausa per l’acqua. Roba per gente tosta, quale devono per forza essere i7 membri dell’Ufficio politico ristretto, i 25 dell’Ufficio politico allargato, i 200 del Comitato centrale, i 150 supplenti del Comitato centrale e i rappresentanti
dei 90 milioni di iscritti al Partito che hanno seguito tale formidabile performance.
Il Congresso del Partito comunista cinese, quindi, è indubbiamente servito da palcoscenico per la glorificazione di Xi Jinping, che in questi anni si è sbarazzato degli avversari politici, ha acquisito poteri sempre maggiori (anche il titolo di Comandante supremo, a significare il controllo sulle Forze armate), ha ottenuto molti risultati e ora ambisce a essere ricordato come il Mao Tse Tung, o almeno il Deng Xiao Ping, del terzo millennio. Non a caso Xi ha tracciato scenari che toccano il 2049, centesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare. Non che conti di arrivarci stando al vertice, ma un corposo avvicinamento personale a quella data è di certo nei suoi obiettivi.
La noia e le pompe, però, non devono ingannare. Con tutti i loro formalismi, i dirigenti cinesi ne hanno sbagliate poche negli ultimi anni. Passin passetto si sono comprati mezza Africa, il 20% del debito pubblico americano è nelle loro banche, si espandono nell’economia europea e, con metodi spesso brutali ma senza perdere un grammo di potere, hanno tolto centinaia di milioni di cinesi dalle sacche del sottosviluppo. Nessuno li prende sottogamba. Ma dev’esser chiaro che questo Congresso, e questo Xi, son serviti ad affermare anche un altro scopo. Nel 2012, appena diventato segretario generale del Partito, Xi Jinping compì una visita ufficiale al Museo Nazionale di Cina sito sulla piazza Tien An Men di Pechino. Lì, in uno dei suoi noiosissimi discorsi, lanciò una frase che è stata poi rilanciata dai media e tanto usata da giornalisti intellettuali e semplici cittadini da diventare il vero slogan della sua stagione di potere: perseguire il «sogno cinese». L’analogia con il «sogno americano» è evidente, anche se quello cinese, stando a Xi, è fatto di quattro elementi: socialismo, sforzo collettivo, prosperità del popolo e gloria nazionale.
Agli americani piacerebbe solo l’ultimo che però, guarda caso, è anche quello diventato davvero innovativo nell’azione politica di Xi e che, appunto, è stato nel cuore di questo Congresso. La Cina di Xi, infatti, non si accontenta più di lavorare e crescere. Nelle stagioni precedenti, i dirigenti cinesi difendevano gli interessi del proprio Paese anche stando zitti e schivando le grane senza esporsi troppo sulla scena internazionale. Poi, un bel giorno, noi scoprivamo di colpo che si erano infilati nelle economie di interi continenti o che erano in affari con Paesi insospettabili. Xi Jinping è oltre tutto questo. Anzi: quando parla di «gloria nazionale» intende che il mondo deve sapere quanto grande e forte è la Cina e capire che conviene rispettarla.
Con lui la Repubblica popolare ha varato un vasto programma di riarmo che l’ha portata a essere il secondo Paese al mondo, dopo gli Usa, per spese militari. Si è mossa con stile autorevole e autoritario su diversi fronti, dal Medio Oriente (in partnership con la Russia) all’Africa all’Asia, dove ha piantato le sue bandiere nel Mar cinese meridionale (dove transita il 30% del traffico commerciale marittimo del pianeta) e ovunque veda un interesse strategico da difendere, come in Corea del Nord. In un certo senso dovevamo aspettarcelo. Per quanto tempo i cinesi avrebbero dovuto lavorare e tacere? Certo è che quella di Xi Jinping è una Cina più arrogante, molto più difficile da maneggiare. Ma è la Cina del presente e, ancor più, del futuro. Prepariamoci.
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