La politica inglese
non guida a sinistra

I risultati delle elezioni locali nel Regno Unito presentano molti segni dei tempi che finiscono per riflettersi sull’Europa. Tempi spesso indecifrabili e controversi. Il primo dato eclatante è senz’altro l’affermazione a Londra, anche nei quartieri in cui gli islamici sono una minoranza, del candidato musulmano praticante di origine pakistana Sadiq Khan, un avvocato di 45 anni, sposato con due figlie, molto impegnato nei diritti civili. Fiero sia delle sue radici pakistane e islamiche che di essere suddito di Sua Maestà. Rappresentante di quell’etnia con radici lontane, in prevalenza da Paesi di antico legame coloniale, fieri di essere inglesi, più degli stessi autoctoni.

Mi sento musulmano, laburista, britannico, marito, padre e tifoso del Liverpool» ripeteva spesso Khan in campagna elettorale, e questo la dice lunga dell’affermazione clamorosa sul suo rivale quarantunenne Zac Goldsmith, tipico rampollo conservatore dell’aristocrazia britannica, fisico alla James Bond prestato alla politica, inequivocabilmente occidentale. La stessa storia del nuovo mayor di Londra, figlio di un immigrato pakistano, a sua volta figlio di un immigrato dall’India al Pakistan, è invece tutt’altra biografia politica. Sadiq Khan è una figura di musulmano moderato che mescola orgoglio di appartenenza orientale, progressismo, integrazione, persino nazionalismo britannico, una figura forse un po’ lontana dalla percezione che abbiamo noi in Italia della comunità islamica e poco comprensibile per noi italiani. Fatto sta che un personaggio diversissimo anche dagli eccentrici Boris Johnson o Ken Livingstone abiterà il grattacielo a uovo del City Hall, proprio di fronte al Tower Bridge. E se guardiamo al futuro, forse potrebbe, un giorno, persino conquistare il numero 10 di Downing Street, dove abitarono Churchill, la Thatcher e Tony Blair.

Il secondo dato riguarda un fattore che ci riguarda più da vicino: la buona affermazione (ma non travolgente) degli euroscettici dell’Ukip di Nigel Farage, il partito apparentato con i Cinque Stelle al Parlamento europeo. Farage, nemico dichiarato dell’euro, è uno dei maggiori sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Unione e la sua affermazione potrebbe il presagio di quel che potrebbe succedere il 23 giugno, quando i cittadini britannici saranno chiamati a esprimersi per la «Brexit». Ipotesi fortemente avversata da Cameron e dal suo avversario Corbin.

Ma c’è un terzo dato incontrovertibile: la sconfitta dei Labour, nonostante il successo di Khan, in questi tutto il resto del Paese. Soprattutto in Scozia, il partito di Jeremy Corbin, il deputato della sinistra radicale che ne ha preso le redini nel settembre scorso, è arrivato terzo dopo gli indipendentisti dell’Snp e dei conservatori. Non c’è solo la doccia scozzese per i labour. Anche in Galles, terra delle vecchie miniere di carbone e roccaforte della sinistra inglese, il partito ha perso terreno. E questo nonostante l’estrema debolezza politica del rivale David Cameron, gravemente compromesso dallo scandalo dei Panama Papers. Poteva essere il colpo del ko. Si è rivelato un flop. Troppo ancorato alle ideologie del Novecento, Corbin non è riuscito a elaborare un terza via tra Stato e mercato come fece Blair, e nemmeno intercettare con nettezza i bisogni e i problemi che salgono imperiosi dalla nostra epoca: la sicurezza, il terrorismo, l’integrazione, la crisi economica e soprattutto del Welfare, il «melting pot». Un tracollo tale che fa pensare alle prossime dimissioni del leader laburista. Per il quale l’affermazione a Liverpool, la città dei Beatles, è ben magra consolazione.

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