La politica di Draghi
argine alla crisi

Si rafforza la crescita. Pure l’euro. Solo che il primo è un segnale positivo. Il secondo, a dispetto delle apparenze, no. E proprio questo secondo fattore ha influenzato in maniera determinante le scelte della Bce annunciate ieri da Mario Draghi. Perché avere una moneta unica forte contro il dollaro in questo momento è un fattore negativo? Soprattutto per due ordini di cose. Il primo, più evidente, è che frena le esportazioni. In un momento in cui la produzione è in forte ripresa e, una volta tanto, anche in Italia il dato traina la crescita, avere i nostri prodotti un po’

meno competitivi sui mercati internazionali (extra Ue) a causa di un cambio sfavorevole per chi compra è una bella palla al piede. Il secondo fattore riguarda invece l’inflazione. Il quadro macroeconomico delineato ieri da Draghi per i prossimi anni è fortemente positivo, a iniziare dalla crescita vista in deciso e costante rialzo. Solo un elemento non segue la tendenza del quadro generale: l’inflazione che dalla Bce è vista meno positiva di quanto non fosse nelle previsioni precedenti. Per sostenere la crescita l’inflazione dovrebbe avvicinarsi al 2%. Invece la previsione della Banca centrale europea per il prossimo anno è dell’1,2%, in calo rispetto all’1,3% visto in precedenza. Secondo il presidente della Banca centrale il target del 2% sarà possibile nel 2020, ma bisogna comunque lavorare per ottenerlo.

Il problema è che non tutto dipende dalla nostra volontà. Sulla forza dell’euro incidono le incertezze che la politica trumpiana e uno scenario geopolitico traballante gettano sul dollaro. Non si tratta solo di incrociare i guantoni con la politica monetaria della Fed (la Banca centrale Usa), ma di fare i conti con uno scacchiere internazionale quanto mai imprevedibile e incerto. Il fronte interno caldo di Draghi resta quello tedesco. La cosa è stata plasticamente evidente anche ieri in conferenza stampa quando il capo della Bce ha avuto un vivace botta e risposta con un giornalista tedesco. Ai toni caldi della domanda, il governatore ha risposto con il solito aplomb invitando la Germania a superare le sue paure, termine usato da Draghi proprio in tedesco: angst.

Per Draghi in questo momento è facile sentirsi forte con i falchi tedeschi: se avesse seguito il loro volere e avesse ieri annunciato la fine del Qe, cioè delle misure che Francoforte ha messo in campo come sostegno dell’economia, avrebbe ulteriormente raffreddato l’inflazione con ricadute sul cambio dell’euro e ulteriori danni alle esportazioni, motore dell’economia, anche di quella tedesca. Ma tenere fede agli obbiettivi annunciati ieri da Draghi non sarà facile: le previsioni macro sono state fatte su un cambio euro/dollaro a 1,18. Ma anche ieri l’euro è stato scambiato a 1,20, malgrado le intenzioni annunciate dal presidente Bce. Così come appare sempre più vicina la scadenza del 2020 come target per un’inflazione in area 2%. Per guidare la politica monetaria ci vorrà tutta la fredda determinazione della quale Draghi si è mostrato capace in questi anni. A dispetto delle teorie strampalate secondo le quali la cosa che ci mancava in Europa erano gli strumenti per attuare una adeguata politica monetaria, si è dimostrato in questi mesi che a farci uscire dalla crisi è stata soprattutto la determinata politica di Draghi che non a caso ieri ha invocato una riforma delle altre istituzioni Ue. Sono proprio gli altri fronti delle istituzioni comunitarie che hanno mostrato in questi mesi le loro carenze. Speriamo che sappiamo ora offrire una sponda alla Bce. Il nuovo appuntamento per Draghi è già dietro l’angolo, ad ottobre, quando si spera che almeno il quadro internazionale sia meno drammaticamente incerto.

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