L'Editoriale
Giovedì 30 Novembre 2017
La morte in diretta
e la guerra infinita
Un gesto tragico, autodistruttivo e plateale, per gridare al mondo la propria (presunta) innocenza. Nella loro fredda sequenza, le immagini del generale croato Slobodan Praljak che si dà la morte ingerendo veleno in un’aula del Tribunale dell’Aja rappresentano il terminale della follia dei conflitti e vanno messe nel bilancio di una guerra che disgregò la Jugoslavia lasciando ferite ancora aperte. Praljak stava ascoltando il verdetto che confermava i 20 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra i quali lo stupro e l’uccisione di musulmani di Bosnia per portare a termine il progetto di pulizia etnica espellendo i non croati dall’Erzegovina, area che avrebbe poi dovuto essere annessa alla Croazia. Il disegno non andò a buon fine. Ma il generale, capo delle operazioni nella zona di Mostar nella sentenza era stato riconosciuto anche come il principale responsabile della distruzione dello «stari most», il vecchio ponte della città fatto saltare a suon di bombe il 9 novembre 1993. Nella scala dei crimini di cui era accusato Praljak questo può essere considerato il minore. Ma il vecchio ponte, poi ricostruito anche col contributo dell’Italia, con la sua arcata unica, edificato tra il 1557 e 1566 su commissione del sultano turco Sulejman il Magnifico, aveva un alto valore simbolico, unendo la parte musulmana di Mostar da quella cattolica.
crimini e le distruzioni avevano però un padre politico, erano il frutto «ragionato» di un disegno predefinito, di cui il generale era solo una pedina seppur consenziente. Svolgeva infatti il compito di intermediario tra il governo di Zagrabia e quello dell’Erzegovina. I conflitti che hanno insanguinato i Balcani, cortile d’Europa, sono stati decisi e preparati nelle capitali delle ex Repubbliche che formavano la Jugoslavia da un sistema istituzionale ancora oggi in parte impunito.
Solo sei giorni fa lo stesso Tribunale dell’Aja aveva condannato all’ergastolo un altro generale, il serbo-bosniaco Ratko Mladic, responsabile fra l’altro del genocidio di Srebrenica (8.300 giovani musulmani trucidati in soli due giorni).
Mladic prendeva ordini da Belgrado ed ha reagito alla sentenza come se fosse ancora in guerra, annunciando che lotterà fino all’ultimo dei suoi giorni per ristabilire la (sua) verità.
La storia recente di questi due ufficiali (Praljak e Mladic) mette in evidenza l’assenza di volontà rispetto al riconoscimento dei crimini di cui furono responsabili. La parola riconoscimento è decisiva per qualunque post-conflitto: non ci può essere pace senza l’ammissione delle proprie responsabilità (anche di quelle di un’Europa che fu spettatrice della guerra) e una giustizia che rimetta ordine tra i colpevoli e le vittime, che ristabilisca la verità e preveda pene giuste. La non accettazione di questo percorso lascia ferite aperte e odii non sopiti.
Il gesto tragico del generale croato Slobodan Praljak, compiuto in diretta televisiva e accompagnato dalle parole «non sono un criminale di guerra e con sdegno respingo la sentenza» rende in modo plastico questa incapacità del riconoscimento delle proprie responsabilità, di stare di fronte alla realtà perché offuscati dall’ideologia della Grande Croazia, che sarebbe nata unendo l’Erzegovina alla Croazia, con la convinzione di aver cercato di fare il bene del proprio popolo: quanto basta per reclamare l’impunità.
Nel bilancio delle macerie e dei dolori delle guerre balcaniche va annoverato anche questo atto autodistruttivo a conferma di un conflitto mai debellato del tutto. Pietà per il generale Praljak, verità e giustizia per migliaia di vittime di quella che una volta chiamavamo Jugoslavia.
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