
L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 18 Marzo 2025
La memoria e un giorno di festa mancato
ITALIA. Avrebbe potuto essere anche un giorno di festa, invece non lo è. Sarà «solo» un giorno della memoria.
Intendiamoci, con l’aria che tira in questo periodo - in Italia, in Europa e nel mondo, dove il negazionismo sta facendo milioni di proseliti - ricordare (anche se piuttosto sottotono rispetto a quanto ci si poteva aspettare per un anniversario «pieno» come quello di oggi) è sempre una gran cosa, da perpetuare all’infinito, senza contare il calore che il ricordo dei nostri affetti più cari ci lascia nel cuore ogni qual volta volgiamo loro il nostro sguardo o il nostro pensiero. Purtroppo però - cinque anni dopo quella tragica sfilata dei carri dell’Esercito con a bordo le bare delle vittime di Covid che il forno crematorio del cimitero di Bergamo non riusciva ad accogliere e che è stata scelta come immagine e come data simbolo di quella «peste» moderna - non ci sono altri motivi per essere «felici», o almeno per essere «felici» di come sono andate le cose nel «post Covid».
Il perché è presto detto, basta semplicemente rispondere con onestà ad una domanda piuttosto banale: cosa resta oggi di quella drammatica esperienza? Restano molte domande a cui dobbiamo ancora dare una risposta; resta qualche mascherina che di tanto in tanto fa la sua comparsa sugli autobus o nelle corsie degli ospedali..
Il perché è presto detto, basta semplicemente rispondere con onestà ad una domanda piuttosto banale: cosa resta oggi di quella drammatica esperienza? Restano molte domande a cui dobbiamo ancora dare una risposta; resta qualche mascherina che di tanto in tanto fa la sua comparsa sugli autobus o nelle corsie degli ospedali; resta un numero di morti ancora da quantificare con certezza (il ministero ne indica tra le 197.000 e le 198.000, ma presumibilmente il numero più corretto ne dovrebbe contare almeno 50.000 in più); restano le multe condonate a chi a quell’epoca non aveva rispettato gli obblighi vaccinali, alla faccia di milioni di italiani che le regole le hanno rispettate, contribuendo così a proteggere anche chi di quelle regole se n’era bellamente infischiato, dimostrando un invidiabile senso civico; resta un piano pandemico ancora da approvare.
Il piano pandemico
Già, il piano pandemico. Ancora all’esame della Conferenza Stato – Regioni (prima o poi verrà approvato), sarà certamente perfetto, come ci si aspetta che sia dopo quello che abbiamo vissuto. Ma ciò che conta è che - in caso di necessità - possa essere messo in pratica concretamente fin da subito, compresa - ad esempio - la distribuzione di tutti quei presidi medico-chirurgici previsti per l’occasione (leggasi mascherine). E per far questo bisogna far sì che il piano venga continuamente aggiornato e finanziato, da oggi e per tutti gli anni a venire fino a quando dovrà (purtroppo) essere messo in pratica.
Passerà molto tempo? Dipende solo da noi, dai nostri comportamenti, dalle nostre scelte e da quelle che verranno fatte nel resto del mondo. Quella presa dagli Stati Uniti di «tagliare» i dipendenti del Servizio sanitario a stelle e strisce e di diminuire i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità è di una miopia (chiamiamola così) impressionante. Gli scaffali per le uova nei supermercati americani (e qualcuno anche in Italia) sono vuoti a causa di una vigorosa epidemia di influenza aviaria che ha decimato galline e pollame di vario genere, e sarà quasi certamente da una mutazione di quel virus - dicono gli esperti - che prenderà le mosse la prossima pandemia che investirà il pianeta. Scelte di pochi, pochissimi, che costeranno assai caro a molti, moltissimi. Come si vede, dunque, non sembra resti granché di buono di quella sciagura planetaria.
Persi anni di vita
Ma non è finita qui. Pochi giorni fa, l’autorevole «Imperial College» di Londra ha pubblicato su «Plos Medicine» (una tra le più rigorose riviste scientifiche internazionali), uno studio sugli effetti della pandemia in Europa tra il 2020 e il 2022 che fa emergere alcuni dati su cui sarebbe bene riflettere. Nel triennio preso in esame, in 18 Paesi europei si sono persi complessivamente 16,8 milioni di anni di vita: 4,7 milioni nel 2020, 7,1 milioni nel 2021 e 5 milioni nel 2022. L’Italia ha perso circa 1,8 milioni di anni di vita, ma registra un tasso inferiore alla media europea e migliore rispetto a Paesi come Regno Unito, Germania e Spagna, dove il bilancio è stato più pesante (in Spagna, ad esempio, si sono persi 3,2 milioni di anni di vita). Tra i fattori che hanno contribuito a limitare l’impatto nel nostro Paese c’è la copertura vaccinale, nel senso che le nazioni con alti tassi vaccinali hanno ridotto gli effetti negativi del Covid sulla mortalità, indipendentemente dal livello socio-economico (le multe condonate non hanno invece contribuito a nulla, nemmeno a «rimpinguare» le povere casse dello Stato).
La considerevole perdita di vite umane «sane» e l’aumento della mortalità prematura non direttamente collegata ai decessi per Covid tra il 2020 e il 2022 - dicono i ricercatori - suggeriscono - a lungo termine e in modo parzialmente indiretto - un potenziale impatto più ampio della pandemia, probabilmente provocato da interruzioni nel garantire l’assistenza sanitaria e nei servizi, per condizioni non dovute espressamente al Covid, e da conseguenze indesiderate dovute alle misure di contenimento del Covid stesso.
Le disuguaglianze socio economiche
Secondo lo studio inglese, inoltre, il rapporto degli anni di vita persi per persona (pyll) è variato notevolmente tra i Paesi presi in esame, oscillando tra 20 e 109 per 1.000 abitanti. I Paesi con un prodotto interno lordo più basso avevano un «pyll» pro capite più alto, un «pyll» senza disabilità sproporzionatamente più alto e una percentuale più alta di «pyll» correlata agli impatti indiretti della pandemia. La pandemia ha dunque peggiorato le disuguaglianze socioeconomiche nella mortalità prematura tra i Paesi e ha ampliato le differenze di genere nell’aspettativa di vita, colpendo in modo sproporzionato uomini, donne e Paesi con un Prodotto interno lordo pro capite inferiore, ampliando così il divario nella mortalità prematura tra uomini e donne e tra Paesi ad alto e basso reddito. Tutti questi risultati mettono in evidenza l’assoluta necessità di una migliore preparazione dell’Europa rispetto a una pandemia, con programmi di salute pubblica globale più completi (e torniamo così al nostro piano pandemico e alla necessità che sia completamente operativo «a tempo zero»).
E per finire, a cinque anni dallo scoppio della pandemia, dopo essere stati acclamati «eroi», medici e infermieri vengono ora presi di mira da continue aggressioni: non solo si sentono dimenticati, ma, secondo una recentissima indagine «sono sempre più stremati e delusi, e ritengono eccessivi i compromessi da accettare per svolgere il proprio lavoro
A tutto ciò, si aggiunge anche l’ultimo rapporto dell’Oms, secondo cui, nonostante l’attenuazione dell’emergenza, continuano a restare disuguaglianze nell’accesso ai vaccini e ai trattamenti sanitari, con alcune fasce di popolazione ancora poco protette. La capacità di risposta alle nuove varianti cambia da nazione a nazione, con alcune che hanno rafforzato le misure di monitoraggio e altre che hanno ridotto la sorveglianza a livelli minimi. E per finire, a cinque anni dallo scoppio della pandemia, dopo essere stati acclamati «eroi», medici e infermieri vengono ora presi di mira da continue aggressioni: non solo si sentono dimenticati, ma, secondo una recentissima indagine «sono sempre più stremati e delusi, e ritengono eccessivi i compromessi da accettare per svolgere il proprio lavoro».
La rimozione collettiva
Tutto qui? Purtroppo no. L’eredità più pesante che ci resta cinque anni dopo quel 18 marzo 2020 è il processo di rimozione collettiva che sembra essere stato fatto nei confronti del Covid. Che ne è della solidarietà umana che per mesi ci aveva tenuti tutti uniti, trasversalmente? Dov’è finita quella pietà e quella compassione che per mesi ci hanno tenuto aperto il cuore alla speranza, dandoci la forza l’uno con l’altro per superare il terrore che avvolgeva le nostre vite? Per superare tutti quegli addii ai nostri cari senza poter dar loro nemmeno uno sguardo, un bacio, una carezza? Che fine hanno fatto quella complicità e quell’intesa che hanno mostrato la nostra resilienza al mondo intero? Oggi siamo tornati ad essere immersi in un individualismo sfrenato, in un egoismo straripante che sembra fare dell’ego una sorta di religione pagana. Siamo diventati una società che non solo lavora in smart, ma che «in smart» vive anche i legami e i rapporti interpersonali, con le conseguenze del caso, peraltro sotto gli occhi di tutti.
Il mito del progresso ad ogni costo e della crescita senza sosta non è stato scalfito dalla lezione di fragilità e finitudine impostaci dal virus, quella stessa lezione che Papa Francesco ci sta dando ora dal suo letto di ospedale: non siamo esseri da performance, ma di relazioni e di prossimità, costi quel che costi
Il mito del progresso ad ogni costo e della crescita senza sosta non è stato scalfito dalla lezione di fragilità e finitudine impostaci dal virus, quella stessa lezione che Papa Francesco ci sta dando ora dal suo letto di ospedale: non siamo esseri da performance, ma di relazioni e di prossimità, costi quel che costi. Il mondo si è fatto ancora più sfrontato, muscolare, escludente, riservato solo a una piccola élite, di dubbia qualità. La pandemia avrebbe dovuto insegnarci una apertura del cuore «globale», senza la quale non siamo nemmeno all’altezza di ciò che dovremmo essere: umani. In buona parte della società, infine, prolifera un atteggiamento antiscientifico che non va bene, che non può essere tollerato, e c’è in atto una cancellazione collettiva della memoria che - ugualmente - non può essere accettata.
Di quella primavera di cinque anni fa oggi ne vogliono parlare in pochi, e quei pochi lo fanno malvolentieri. Eppure non possiamo permettere che ciò avvenga. Lo dobbiamo alle migliaia e migliaia di morti per Covid, che se ne sono andati senza che nessuno dei propri cari potesse accompagnarli nel loro ultimo viaggio, il più triste, il più doloroso. Se ne sono andati in totale solitudine, e noi di questo dovremo sempre fare memoria. Sempre. È un segno di civiltà, è un segno di rispetto anche verso noi stessi e verso tutti coloro che si sono impegnati per salvarci la vita in quegli anni. È un segno di rispetto verso quelle persone che ora non ci sono più. Non dimentichiamolo mai.
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