L'Editoriale
Giovedì 23 Marzo 2017
La lotta all’Isis
I ritardi da colmare
Definire «attacco al Parlamento» l’incursione che ieri, a Londra, ha seminato il panico nella zona di Westminster è senz’altro esagerato. Ma i morti e i feriti sono una questione fin troppo seria, e non solo per la capitale che nel 2005 pagò il tributo di 26 vite al terrorismo islamico. L’uomo che ha scagliato un’automobile contro la folla e poi ha pugnalato a morte un poliziotto è il fratello di sangue degli altri stragisti che hanno colpito in tutta Europa, da Nizza in Francia a Orlando negli Usa a Berlino in Germania. E proprio per questo, dunque, costituisce un pericolo ancor più insidioso e sfuggente.
A dispetto di tante indagini, e delle rivendicazioni dell’Isis che arrivano puntuali dopo ognuno di questi episodi, le forze di polizia e di intelligence non sono ancora riuscite a stabilire se questi lupi siano davvero solitari, o non siano invece una versione particolare di arma manovrata da un jihadismo ben organizzato e strutturato. Nell’estate del 2016, Europol ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che il 35% dei lupi solitari che hanno colpito in Occidente tra il 2000 e il 2015 soffrivano di disturbi mentali. Nello stesso rapporto, gli specialisti della polizia europea sostenevano che «sebbene lo Stato islamico abbia rivendicato la responsabilità degli ultimi attacchi nessuno di essi sembra essere sostenuto logisticamente o eseguito direttamente dall’Isis».
I disastri della follia, a sua volta incentivata e diretta dall’esempio dello pseudo Stato islamico e dal fanatismo para-religioso diffuso attraverso Internet e il circuito dei predicatori radicali, sarebbe quindi sfruttabile una volta che ha prodotto i suoi danni. Intervenire sulla follia, però, è impossibile. E sappiamo che la rete della prevenzione allargata dalle agenzie di intelligence funziona: le notizie in arrivo da Londra parlano di almeno un’altra dozzina di attentati sventati negli ultimi tempi. In tutti i campi si può sempre migliorare. Ma in questo caso pare evidente che il ritardo più grave e pericoloso è stato accumulato nella lotta contro il Califfato e in particolare contro l’Isis.
Era l’estate del 2014 quando le bandiere nere dei miliziani di Al Baghdadi presero a dilagare in Iraq e in Siria. Quasi tre anni dopo siamo ancora alle prese con la liberazione di Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria), mentre l’Isis tiene sotto assedio da anni oltre centomila persone nella città siriana di Deir Ezzor e Palmira è stata liberata, ripresa e di nuovo liberata. In teoria contro i jihadisti si è mosso la più potente coalizione militare di tutti i tempi: 67 Paesi da un lato, con la guida degli Usa e dell’Arabia Saudita; e poi il triangolo Russia, Iran e Hezbollah, con l’aggiunta della Turchia che, dopo aver a lungo aiutato e rifornito i jihadisti, ha di recente cambiato bandiera. Eppure siamo ancora lì, a misurare le mosse, prendere precauzioni, osservare con preoccupazione impotente l’aumento delle vittime civili nella campagna di liberazione.
Un ritardo inspiegabile e ingiustificabile, che ha concesso all’Isis non solo tanto tempo in più per opprimere le popolazioni assoggettate ma anche per diffondere il mito del jihadismo e della lotta armata. Questo mito è il grimaldello che arma le menti deboli o fanatiche ed è il vero nemico di chi vuole bloccare il terrorismo. È dunque l’obiettivo contro cui avremmo dovuto convogliare fin da subito il massimo degli sforzi. È tardi ma non è troppo tardi. Ed è comunque il momento di cominciare a impegnarsi per il ritorno delle popolazioni nelle loro terre, operazione che non sarà meno difficile delle attuali campagne militari.
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