L'Editoriale
Martedì 11 Aprile 2017
La legge elettorale
non cambi per decreto
La XVII legislatura del Parlamento italiano, cominciata nel marzo 2013, volge al termine. Per ora, ci lascia con due leggi elettorali precarie, frutto dell’intervento ortopedico della Corte costituzionale sulle distorsioni iper-maggioritarie contenute nel Porcellum e poi nell’Italicum. A seguito dell’intervento della Corte, abbiamo, per i due rami del Parlamento, due leggi diverse, benché ambedue di impianto proporzionalistico. Al Senato vige il «Consultellum», sistema elettorale proporzionale con sbarramento all’8% per partiti singoli e del 20% per le coalizioni (3% per le singole liste della coalizione).
È ciò che residua del Porcellum dopo la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Alla Camera, a seguito della sentenza sull’Italicum (sentenza 35/2017), resta un sistema proporzionale (sbarramento al 3%) con (improbabile) premio di maggioranza assegnato alla lista che superi il 40% dei consensi. All’indomani del referendum costituzionale e delle conseguenti dimissioni di Renzi, prima però della sentenza sull’Italicum, il presidente Mattarella aveva auspicato che il proseguimento della legislatura consentisse di omogeneizzare le leggi elettorali per i due rami del Parlamento, esito poi parzialmente conseguito con la sentenza della Corte sull’Italicum. La Corte ha precisato che «la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee». A meno di un anno dalla fine della legislatura, il traguardo di nuove leggi elettorali omogenee appare lontano.
Peraltro, esso appare ormai anche critico, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (caso Ekoglasnost v. Bulgarie), che ha stigmatizzato modifiche a leggi elettorali approvate a meno di un anno dal voto, perché inesorabilmente sospette di «non neutralità». Tanto più che si affaccia, per ora timidamente, l’ipotesi di un intervento in materia del Governo con decreto-legge. Un’eventualità «distante», si affretta a precisare Migliore. Si tratta di un’ipotesi che suscita molte perplessità, di opportunità e di legittimità costituzionale. Di opportunità, perché, di nuovo, regole del gioco, benché formalmente non costituzionali, verrebbero decise dal Governo. L’esito del recente referendum costituzionale non ha insegnato alcunché?
Si porrebbe anche una seria questione di legittimità costituzionale. Dal 1995, la Corte costituzionale ha precisato che il divieto di ricorso ai decreti-legge vale quando sia in gioco la disciplina del «cuore» stesso della legislazione elettorale, non per ritoccare profili meramente di contorno. Quando dunque si tratti di scrivere una nuova legge elettorale, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione di un eventuale decreto, e la Corte costituzionale potrebbero sindacare la sussistenza dei presupposti cui la Costituzione subordina il ricorso alla decretazione d’urgenza (casi straordinari, di necessità e urgenza), che non possono consistere nella mera difficoltà delle forze politiche parlamentari di trovare un accordo. Ma c’è di più. L’art. 72 Cost. espressamente prevede che, per la legge elettorale, sia adottata la procedura normale di esame e di approvazione della legge da parte del Parlamento, vietando il ricorso a iter legislativi abbreviati.
E la legge 400/1988 (all’art. 15) esplicita, con legge ordinaria, il divieto di decreti-legge in materia elettorale. Vero è che a un decreto-legge segue una legge di conversione, pena altrimenti la decadenza retroattiva degli effetti dello stesso. E dunque si potrebbe pensare (qualcuno l’ha sostenuto) che la legge di conversione possa sanare la forzatura. E tuttavia perché mai il presidente dovrebbe emanare un decreto-legge in contrasto con il divieto previsto dalla legge 400? E poi la legge di conversione dovrebbe comunque intervenire entro un orizzonte temporale schiacciato (massimo 60 giorni), vanificando così la volontà dei costituenti di avere una procedura parlamentare non compressa.
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