L'Editoriale
Mercoledì 11 Settembre 2019
La Lega scesa
dalla carrozza
Il Senato negli ultimi anni è stato spesso la camera della morte dei governi ma raramente ci ha consegnato dei dibattiti che non fossero la ripetizione stanca di quelli della Camera. E la seduta di ieri per la fiducia al governo Conte-bis non ha cambiato le abitudini. Salvo per una nuova puntata dello scontro ormai personale, oltre che politico, tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Anzi, Conte-Monti come il capo leghista ha cominciato sarcasticamente a soprannominare il presidente del Consiglio successore di se stesso.
Conte-Monti perché colui che per la Lega è il simbolo detestabile dell’Europa tiranna, il senatore a vita che impose all’Italia la cura da cavallo del 2011, ha annunciato il proprio voto favorevole al governo proprio in nome di un rinnovato europeismo dell’Italia. E dunque, così attaccando la «montizzazione» di Conte, Salvini non fa che ripetere il mantra dell’opposizione leghista da qui a chissà quando: il governo giallo-rosso, dice, è stato voluto e preparato a Bruxelles, a Parigi e a Berlino, è lo strumento che serve alla Ue per riportare l’Italia nei ranghi, insomma a obbedire alle regole che ci saranno imposte, guarda caso, proprio da Paolo Gentiloni neo commissario europeo agli Affari Economici.
Pur di ottenere questo risultato, insiste, si impedisce al popolo sovrano di tornare a votare e si fa un «governo delle poltrone» che emargini chi si vorrebbe ribellare ai diktat di Palais Berlaymont. Il «Capitano» promette opposizione dura, durissima, in Parlamento e nelle piazze, prendendosela innanzitutto con Conte (ma non con Di Maio) che così diventa ciò che il premier stesso desidera essere: il vero anti-Salvini e della destra e come tale il leader del Movimento. Nello stesso momento in cui brandisce lo spadone, però, Salvini mostra di sapere che la traversata nel deserto dell’opposizione potrebbe essere lunga. Certo, spera che le contraddizioni profonde che dividono Pd e M5S emergano fragorosamente in breve tempo, e poi stuzzica il M5S sperando che finisca per esplodere, terremotato da un’alleanza contronatura con i democratici, per loro da sempre simbolo disprezzabile del potere, della Casta, dell’establishment (almeno Salvini era ed è un irregolare come i pentastellati). Ma è consapevole del fatto che il patto di potere tra democratici e grillini «deve» durare almeno fino al 2021 quando si dovrà eleggere un presidente della Repubblica (Prodi?) lontano mille miglia dal salvinismo.
Dunque la Lega, scesa dalla carrozza del potere, si deve attrezzare ad una lunga camminata a piedi sapendo che quando, prima o poi, le elezioni ci saranno, saranno regolate dalla legge proporzionale che presto vedrà la luce. Il proporzionale puro che tornerà in auge come ai tempi della prima Repubblica, ci regalerà - proprio come allora - governi di coalizione che nasceranno in Parlamento dagli accordi tra partiti e non nelle urne. Questo meccanismo potrebbe tenere la Lega e Fratelli d’Italia stabilmente all’angolo: rumorosi sì ma anche innocui. Non a caso ieri nel discorso in Senato Salvini ha preso a bersaglio proprio le prime riunioni «urgenti» dei partiti di governo per varare una nuova legge elettorale. «Dov’è l’urgenza di una cosa del genere?» si chiedeva, ben sapendo che proprio il proporzionale è la pietra d’angolo dell’alleanza tra democratici e grillini.
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