La giustizia ai tempi
dei leoni da tastiera

Tutti esperti di diritto. Magari dopo essere stati - mezz’ora prima - luminari di medicina, archistar incomprese, criminologi da sofà. Tutti con una virtuale corda saponata appoggiata accanto al mouse del pc, pronti a scodellare scempiaggini fegatose, a denigrare chi ancora si ostina a decidere tramite il codice penale: meglio il forcone, la giurisprudenza di pancia che salva i Barabba e condanna tutti gli altri. Brutta cosa la giustizia ai tempi dei social, che rischia di insinuarsi subdolamente nelle aule di tribunale come il gelo sotto la porta di casa.

Prima twittare, poi riflettere. È un assedio, quello dei leoni da tastiera, tanto da costringere alti magistrati a lanciare grida d’allarme e correre ai ripari. Problematica, ha spiegato ieri il presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli, è diventata, ad esempio, l’accettazione delle decisioni, perché «sconta» anche fattori «di natura mass mediatica». Scrive Castelli che «specie in un’epoca come l’attuale in cui dominano notizie false e un trionfo di moti plebei sulle diverse competenze e professionalità, il rischio sarebbe quello di farsi condizionare dagli istinti, prima ancora che dalle opinioni del pubblico».

Li abbiamo visti all’opera durante il processo a Massimo Bossetti, questi docenti delle retrovie informatiche: oltre a contestare le decisioni del tribunale e del pm Ruggeri (facoltà sacrosanta, sia chiaro), si abbandonavano spesso a offese personali, da bancone da osteria. È questo il livello del dibattito pubblico? Be’, se guardiamo certi talk show - anche alcuni specializzati in cronaca giudiziaria - non c’è da stupirsene: la spiegazione scientifica non diventa apprendimento, ma militanza; il dibattito si trasforma in scontro fra innocentisti e colpevolisti, l’ultima frontiera delle curve da stadio. Alla fine, ci si mette davanti alla tv per tifare, non per guardare: le urla che si superano fanno picchi d’ascolto e alla fine della trasmissione ciascuno ci ha capito meno di prima. Però si è divertito. Con che spirito credete che si metta davanti al computer questa gente? Ispirata a chi si azzanna in tv - comparire in tv è sufficiente per essere catalogati come esperti -, si sentirà autorizzata a sputare sentenze, a ritenersi essa stessa esperta, magari dopo la laurea breve di un quarto d’ora all’Università di Wikipedia e ad onta degli anni di studi sostenuti dai magistrati veri (per carità, qualche asino c’è pure tra di loro ).

I fumi dell’istintività e dell’incompetenza rischiano di intossicare una categoria che, come tutte quelle elitarie, è diventata casta agli occhi della gente. E di mettere in circolo concetti pericolosi. Tipo quello che, quanto più la giustizia è veloce, tanto più è efficace. È toccato a Castelli ricordare ieri che «viviamo in epoche in cui l’ossessione dei tempi diventa una schiavitù. Anche per la giustizia la questione determinante appare sempre più la celerità. Sembra quasi che la velocità sia l’unico parametro di valutazione di un giudizio». Non è stata una giustificazione sui tempi a volte estenuanti dei processi. Perché, ha spiegato il presidente, la giustizia ha «tempi ragionevoli, non immediati, nella convinzione che garanzie e contraddittorio inevitabilmente hanno un costo come tempi».

Anche i numeri sono pericolosi: più definisci procedimenti e più sei considerato. «In questo produttivismo cieco l’unica cosa che conta sembrano le cifre. Anche la terminologia ne è stata condizionata, tanto che ormai parliamo di smaltimento dei procedimenti, come se dietro ciascuno di essi non ci fossero persone». Se è questa la giustizia che vogliamo, i leoni da tastiera non hanno motivo di sloggiare dal loro assedio. Tanto più che persino qualche magistrato o tirocinante - il monito è giunto dal rappresentante del Csm Mongigni - sui social non esita a sfoggiare una disinvoltura di stile e di etica che cozza con quella di un togato. Sono loro gli inconsapevoli cavalli di Troia.

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