L'Editoriale
Domenica 18 Novembre 2018
La Francia in piazza
ma non è populismo
La protesta dei «gilet gialli», che hanno fermato mezza Francia con oltre 2 mila stradali e a Parigi hanno portato il corteo a poche decine di metri dall’Eliseo per protestare contro l’aumento dei prezzi dei carburanti, verrà presto etichettata come un fenomeno di destra. Ben che vada come una delle espressioni del tanto esecrato populismo, il male politico del secolo. D’altra parte arrabbiarsi per i costi del trasporto non pare nobile come, per dire, manifestare contro il razzismo. Così facendo butteremo alle ortiche non solo il messaggio inviato per direttissima a Emmanuel Macron ma anche quello, più profondo, su cui tutti dovremmo meditare. Per capire meglio bisogna risalire all’origine del fenomeno. Che sta in una telefonata tra due camionisti, Bruno Lefevre ed Eric Drouet, che vivono nel dipartimento di Seine-et-Marne. Lefevre ha così ricostruito: «Ci dicevamo che eravamo stufi di pagare tante tasse e vedere il prezzo dei carburanti aumentare. Noi non abitiamo in città, dove viviamo noi i trasporti pubblici sono quasi inesistenti. Il panificio più vicino è a 5 chilometri dalla mia casa, sono obbligato a usare l’automobile». È il 10 ottobre.
Il 12 ottobre la sconosciuta Priscillia Ludovsky pubblica sulla piattaforma Change.org una petizione contro l’aumento dei prezzi alla pompa. In pochi giorni arrivano duecentomila firme. Poi arrivano anche Lefevre e l’amico, che mettono insieme un comitato. Altri comitati li seguono (Potere al popolo, Francia in collera…) rilanciandosi l’un l’altro sui social. Fino alla protesta esplosa ieri.
In Francia un litro di benzina costa in media 1,54 euro, mentre un litro di diesel costa 1,51. Nell’ultimo anno, l’aumento è stato del 14 e 22% rispettivamente. Adesso il governo, per finanziare la transizione alle energie pulite, chiede un altro aumento: 6,5% per il diesel (pari a 10 centesimi al litro) e 2,9% (pari a 4,5 centesimi al litro) per la benzina. Per carità, niente da dire sulle energie pulite. Resta però il fatto che, ancora una volta, la costruzione di un mondo migliore grava più sulle spalle di chi negli ultimi anni ha visto logorarsi salari e potere d’acquisto che non su coloro che possono infischiarsene di qualche centesimo in più al litro. Più sul popolo delle periferie che non sulle grandi borghesie urbane. Più sulla piccola borghesia della provincia che non sui ceti abbienti. Prima lezione dai gilet gialli: non lo si può più fare impunemente.
E poi c’è il potere di Internet che, di fatto, sta eliminando molte forme di intermediazione sociale, avvicinando i cittadini alla politica e, nello stesso tempo, allontanandoli dalle sedi tradizionali della politica stessa, per primi i partiti storici. Non a caso il furbo Macron, per diventare presidente, si è inventato (o gli hanno inventato) un partito-movimento mai visto prima.
Ma lo si è visto anche in Italia: a parità più o meno di partecipazione, ha «pesato» assai più la manifestazione pro-Tav di Torino che non quella pro-Pd organizzata qualche tempo prima a Roma. E anche le «madamin» di Torino erano partite da una pagina Facebook.
La politica tradizionale deve capire queste lezioni o si condanna all’estinzione. Cosa che in Francia sta puntualmente avvenendo. Ieri il Partito socialista ha condannato la protesta (ma i socialisti, un tempo, avrebbero condannato una manifestazione contro il carovita?) e così pure i repubblicani. Ma il caso più straordinario è quello della Cgt (Confédération générale du travail), già feudo comunista, che ha detto di condividere le ragioni della protesta ma di non sostenerla perché tali ragioni erano approvate anche dai partiti di destra. Ci sono modi meno dolorosi di suicidarsi.
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