L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 06 Gennaio 2020
La forza del premier
la debolezza degli alleati
I fatti sono noti. Nell’ultima conferenza stampa dell’anno Conte ha riservato agli italiani una sorpresa. All’interno della scontata difesa dell’azione svolta dal governo ora in carica (Conte II) in riparazione dei danni procurati da Salvini (e quindi dal Conte I), l’ex avvocato del popolo ha fatto inaspettatamente coming out: quando si chiuderà la sua esperienza di capo del governo, resterà comunque in politica ma, smentendo le voci corse al contrario nel frattempo, senza fondare un suo partito.
Perché si è sentito in dovere di esternare questo proponimento? E perché lo ha fatto in questo preciso momento? Non sono domande oziose. Nessuno lo aveva sollecitato in tal senso né si può dire che il suo futuro politico fosse una questione aperta. Non si può nemmeno considerare la sua una voce dal sen fuggita. È importante, però, fornire una risposta a tali quesiti, perché ne sarà del futuro della presente e forse anche della prossima legislatura.
La posizione che Conte occupa ora è per lui tanto vantaggiosa quanto precaria. Prelevato direttamente dai Cinquestelle dal suo studio di avvocato, dopo un anno passato a Palazzo Chigi a controfirmare decisioni assunte da altri (Salvini e Di Maio), di colpo s’è ritrovato premier a pieno titolo. Non solo, ma con un vantaggio in più. I suoi soci di maggioranza sono tanto deboli da esser condannati ad aggrapparsi a lui per salvarsi da un altrimenti inevitabile naufragio elettorale. Una condizione di vantaggio unica, ma anche precaria. Senza un suo partito e con i M5S ormai sospettosi delle sue palesi ambizioni politiche, interessati solo a risolvere beghe politiche anche in conseguenza di una caduta libera nei sondaggi, Conte deve essersi chiesto: cosa devo fare se non voglio finire sotto le macerie del prossimo, più che probabile, crollo dei compagni di strada grillini?
La popolarità di cui gode al presente non deve trarre in inganno. Chi dei precedenti premier ha fatto su di esso grande affidamento per costruirsi un proprio partito è andato a sbattere. Gianfranco Fini prima, Mario Monti poi hanno dimostrato che puntare sul consenso avuto grazie alla carica di governo ricoperta non paga. Conte deve aver fatto allora due conti. Franata la sponda del M5S, irrecuperabile quella della Lega, non gli resta che il Pd. Ma se aspetta la fine della legislatura a compiere il gran salto a sinistra, perde il suo – oggi grande - potere contrattuale. Potrebbe far la fine degli «indipendenti di sinistra» della Prima Repubblica: corteggiatissimi dal Pci alla vigilia del voto, poi finiti al macero.
Molto meglio – deve aver pensato – mettersi a disposizione del Pd come candidato leader di quel «campo largo» progressista che il partito di Zingaretti cerca disperatamente di costruire senza riuscirvi. Lui invece è l’uomo giusto per tentare l’impresa. Dotato di buone credenziali nel mondo cattolico, di un buon apprezzamento presso l’establishment, con una buona reputazione di politico propenso alla mediazione, potrebbe essere il novello Prodi alla testa di un nuovo Ulivo. Con un’avvertenza da rispettare: guardarsi dai suoi alleati (a cominciare dai grillini, in preda ad una sorta di sindrome autodistruttiva) per non fare, prima di cominciare, la fine del professore di Bologna, caduto vittima delle divisioni interne alla sua maggioranza.
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