La follia delle armi
è un’ipocrisia tutta americana

Può un Paese che include nella sua Costituzione il diritto alla felicità essere ripetutamente teatro di stragi insensate come quella avvenuta in Oregon? Può un Paese che si considera un esempio di democrazia essere vittima di qualunque pazzo omicida che – favorito dalla possibilità di comprare armi di ogni genere – si prefigge, per una ragione qualsiasi, di seminare morte e terrore tra persone inermi?

Può un Paese che è l’unica superpotenza del pianeta essere, nel contempo, spettatore passivo di fenomeni così insensati e carnefice delle persone indifese che sono ogni giorno potenzialmente sotto il fuoco di chiunque esca di casa armato fino ai denti? L’unica risposta logica alle tre domande è, evidentemente, no. Non lo deve, non lo dovrebbe. Ma il «no» implica negare la realtà. Significa voler chiudere gli occhi su ciò che è accaduto fin troppe volte negli Stati Uniti negli ultimi anni. Quella di Roseburg è una strage che allunga il rituale macabro dei massacri di innocenti avvenuti nelle scuole statunitensi. Dopo le 13 vittime di Columbine, le 33 di Blacksburg, le 27 di Newtown, le 4 di Marysville, c’è Roseburg. Di fronte a tale sequela di episodi il rischio maggiore è la rimozione. Fenomeno estremamente insidioso che ha le sue radici nella tendenza psicologica a minimizzare, fino a dimenticare, tutto quello che riteniamo inaccettabile.

La rimozione comincia ad agire allorché lo sdegno collettivo si affievolisce e le promesse di drastiche misure di controllo si confondono nel divenire di agende politiche zeppe di altri problemi. Allora si consuma il peggiore vulnus che una democrazia può fare ai suoi cittadini e, quindi, a se stessa. L’oblio delle stragi come medicamento che non rimuove il male è, negli Usa, cronaca che si fa storia. Storia che contraddice i caratteri di civiltà di quella democrazia. Storia nella quale prevalgono (anche se si fatica a darsene ragione) calcoli di interessi economici, la logica del denaro come leva che muove il mondo. Negli Usa il numero degli abitanti (dai neonati agli ultracentenari) è quasi pareggiato dal numero di armi in loro possesso. Armi in larga parte da guerra. Una guerra che si consuma nelle case (o nei loro dintorni), ma soprattutto nei cervelli delle persone. Di quei tanti che credono che armarsi sia un modo per essere e sentirsi più forti. Fino a considerarsi invincibili o portatori del diritto di seminare morte.

Obama ha condannato la strage con parole durissime, promettendo – cosa che cerca di fare dal suo primo mandato – leggi restrittive sulla vendita di armi e sulla possibilità di detenerne. Il suo attacco è rivolto alle lobbies dei fabbricanti di armi. Gruppi di pressione potentissimi che operano, come le leggi statunitensi permettono, alla luce del sole, orientando in loro favore le decisioni del Congresso e vanificando la volontà del presidente. Obama dovrebbe rivolgersi direttamente ai deputati che siedono a Washington, sfidandoli ad assumere una posizione chiara. Risponderanno all’appello? Molti lo faranno in modo ipocrita, accodandosi all’ondata di rabbia e dolore e aspettando che si spenga. Altri si ergeranno a paladini dell’individualismo e spiegheranno che il diritto di armarsi non può subire limitazioni. E che è, in sostanza, un dato genetico per un popolo «di frontiera».

In tale scenario l’obiettivo di limitare la vendita di armi e di diminuirne il numero in circolazione potrà trovare uno spiraglio solo se l’azione di Obama sarà sostenuta da una mobilitazione decisa e costante della parte migliore del popolo americano. Che deciderà di non accettare più la tremenda equazione «se un altro si arma, io mi armo per difendermi da lui».

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