La fiducia non basta
Servono gli elettori

Ormai i giochi sono fatti e le liste composte. Abbiamo assistito al consueto spettacolo dell’arrembaggio degli aspiranti candidati e la cosa non ci scandalizza più: ci siamo abituati. Il lavoro del parlamentare, con la disoccupazione che c’è in giro, è diventato – per quanto possa sembrare patologico – un posto di lavoro ben remunerato e non più di grandissima responsabilità, e si capisce che ci sia chi ci prova. Nelle scorse legislature l’esercito dei potenziali legislatori, grazie al Porcellum, aveva il problema di entrare nelle grazie dei capi, cosa certo non facile ma, una volta conquistato un buon posto in lista, potevano mandare in lavanderia il vestito buono: il consenso popolare alla candidatura era un elemento superfluo.

Adesso bisogna essere cari al leader di partito ma anche sperare nella buona sorte perché la legge elettorale più pazza del mondo potrebbe farti essere nello stesso tempo vincente (hai preso più voti degli altri) ma anche perdente (il posto te lo ha soffiato uno del tuo partito entrato nell’algoritmo giusto). Misteri rosatelliani. La stessa dizione di «collegio sicuro» con cui sono stati rassicurati i candidati di serie A, non è garanzia di elezione. E quindi un po’ di fatica i candidati dovranno farla.

Una domanda: come si presentano i partiti al giudizio dell’elettorato? Quale squadra presentano al pubblico? Ad una prima disamina, l’entusiasmo non deborda, diciamo. La cosiddetta società civile, il mondo delle competenze, delle eccellenze, delle professionalità, di quelli che mandano avanti la carretta nazionale e potrebbero anche dare una mano a Montecitorio, i nomi altisonanti e riveriti in Italia e nel mondo che pure ci sono, non ci pare che abbondino nelle liste, anzi. Ci sono vari rappresentanti delle categorie (i soliti professori e avvocati, pochi giudici, qualche giornalista) e i consueti testimonial di questioni scottanti - la violenza sulle donne, la lotta alla camorra, l’integrazione, ecc. – ma anch’essi in misura ridotta. Quello che si vede invece è che i capi-partito si sono preoccupati della fedeltà dei futuri gruppi parlamentari. Il motto «Niente scherzi» lo ha pronunciato Luigi Di Maio che, prima, ha dovuto arginare la carica dei 15 mila aspiranti delle cosiddette «parlamentarie», e poi si è dovuto mettere a scremare nome dopo nome, e non è nemmeno bastato, a giudicare dal caso di quell’ammiraglio in pensione presentato con enfasi alla conferenza stampa e poi frettolosamente rimandato a casa perché si è scoperto che era stato eletto in un’altra competizione addirittura col Pd. «Scusate, non sapevo che non si potesse» ha candidamente rinculato l’ex alto ufficiale, convinto in buona fede di poter essere grillino a Roma e renziano a casa sua.

Della renzizzazione del Pd si è scritto a lungo in questi ultimi due giorni dopo la sterminata riunione di direzione dell’altra notte. Il segretario del Pd si è garantito il futuro: i senatori e i deputati dovranno sostenerlo nella buona come nella cattiva sorte. «Ma così andate verso l’abisso» ha pronosticato Enrico Letta dalla sua casa parigina mai tanto confortevole mentre schiere di esclusi rilasciavano dichiarazioni foriere di future vendette. Con molto meno clamore anche Matteo Salvini ha fatto più o meno lo stesso lavoro: come Renzi ha falcidiato le opposizioni interne, pare che il suo omonimo Matteo non abbia usato i guanti bianchi con i seguaci di Roberto Maroni.

Le minori sorprese le ha riservate Berlusconi: del resto lui è l’antesignano del partito personale, Forza Italia è sempre stata la fotocopia del suo cervello, e così è ancora, con poche sorprese, moltissime conferme e diversi premi alla carriera (Galliani, Lotito). Questo esercito di api operose rispetto al recente passato, avrà un merito: dovrà sudarsi, come detto, non solo il favore del principe e della sorte, ma un po’ più che in passato persino la benevolenza degli elettori. Non è poco, a pensarci bene.

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