La débâcle di Renzi
Cesarismo sconfitto

È noto che la qualità delle persone emerge nei momenti della sconfitta. Una sorta di assioma che ha accompagnato la storia dell’umanità e che contraddistingue anche la vita quotidiana di ognuno. Il Pd esce sonoramente sconfitto – oltre ogni pessimistica previsione – dal confronto elettorale. Quando si perde, raramente la colpa è di uno soltanto, ma è vero, peraltro, che chi è al timone della nave ha le responsabilità maggiori.

Sotto questo profilo le dimissioni annunciate da Matteo Renzi sono un’eccellente cartina di tornasole per decifrare la caratura del segretario del Pd. Tanto per cominciare si tratta di una rinuncia soltanto dichiarata, ma soprattutto sottoposta a condizioni, nel momento in cui Renzi dice di volersi fare da parte soltanto dopo la formazione del governo, nonché attraverso il meccanismo delle «primarie» per la scelta del segretario. Che potrebbe essere nuovo, ma anche no, nel senso che il «popolo» del Pd potrebbe ancora una volta far convergere la sua preferenza su Renzi. A quel punto – di fronte a un’investitura dal basso – l’attuale segretario (dimissionando, più che dimissionario) sarebbe quasi costretto a rimanere a «furor di popolo» dove è tuttora. Uno scenario non soltanto inedito, ma preoccupante. Per un insieme di buone ragioni. In primo luogo, perché il richiamo, insistito e ricorrente, al «popolo» non fa altro che dare all’atteggiamento di Renzi un’impronta cesaristica, già adombrata in molteplici occasioni.

Vi è poi una questione di estetica politico/istituzionale. Un segretario di partito, già presidente del Consiglio, dovrebbe aver chiaro che – in determinate circostanze – la forma nel dialogo pubblico è, in larga parte, sostanza. Le dimissioni sono, per definizione, un atto spontaneo, ma proprio per questo, non negoziabile, né tantomeno ritrattabile. Non sono, non possono e non devono essere un espediente tattico, magari per mettere in difficoltà le voci dissidenti all’interno del partito. Anni fa, un eminente giurista – dimessosi da una carica importantissima – alla (scriteriata) domanda di un giornalista sulla possibilità di ripensarci, affermò: «Le dimissioni di una persona seria sono sempre irrevocabili».

La prudenza e il senso della misura dovrebbero guidare tutti coloro sui quali incombono responsabilità elevate. Invece, nell’ annuncio di Renzi non c’è traccia di un’effettiva assunzione di responsabilità, quanto piuttosto la tensione verso la rivalsa e la propensione al rialzo della posta in gioco. Scelta molto avventurata, perché la débâcle elettorale di domenica è il punto culminante di una sequela di errori commessi da Renzi nei mesi successivi alla sonora sconfitta referendaria. Il segretario del Pd continua a proporre una narrazione «guerriera» fondata sulle qualità carismatiche del «capo», sulla sua travolgente capacità di ottenere consensi. Un approccio che, per alcuni anni, ha fatto presa su due segmenti: gli inesperti (in maggioranza giovani) in buona fede che hanno creduto nella pozione magica della «rottamazione»; i furbetti saliti in corsa sul carro dell’allora vincitore. Alla resa dei conti, questo approccio si è rivelato geneticamente estraneo alla cultura civile, prima ancora che politica, degli elettori di sinistra, abituati alla discussione, al confronto, alla partecipazione. E, quindi, non adusi ad «obbedir tacendo», oppure a dire sempre sì per convenienza. La logica dell’uomo solo al comando – tratto distintivo del suo percorso – è stato l’elemento populista del partito che Renzi aveva voluto plasmare a sua immagine e somiglianza. Il crollo in due anni dal 41% a meno del 20% rivela quanto fosse fragile il castello di carte costruito su quella base. Le «dimissioni condizionate» di Renzi sono la riprova di un’arroganza pericolosa. Il condizionatore potrebbe, infatti, trovarsi ancora una volta a mani vuote: diventare un condizionatore d’aria. Fritta per giunta.

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