L'Editoriale
Domenica 21 Febbraio 2016
La cultura trasformata
in best seller
Adesso che è morto, e non potremo più aspettare l’uscita di ogni suo nuovo libro come aspettavamo l’arrivo in stazione dell’amico di ritorno da un lungo viaggio, adesso che Umberto Eco è morto non possiamo non ripensare al finale del «Nome della rosa», il suo best seller planetario: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Tradotto dal latino medievaleggiante, suona così: della rosa che c’era prima rimane soltanto il nome, possediamo solo dei nudi nomi. Parole struggenti che esprimono con tenerezza tutta la disperazione per la morte di una persona cara.
Ossessionato dall’irrimediabilità del distacco e dalla consapevolezza che il tempo si porta via tutto, l’uomo medioevale pensava alla rosa che fiorisce il mattino e l’indomani è già vecchia e non vedrà il prossimo sole. Ricordava – e non si dava pace - la neve che fino a pochi giorni prima era lì, davanti a lui, colorava un paesaggio, scricchiolava sotto i piedi, e d’un tratto non c’è più, svanita per sempre.
Umberto Eco è morto l’altra sera, stroncato da un tumore: aveva appena compiuto 84 anni. Di lui non resterà solo il nome. Resteranno le opere, tante e bellissime, alcune fondamentali. Resterà il suo stile, unico perché difficilmente inimitabile. Guardando dentro la sua più grande passione, il Medioevo, quel mondo ingiustamente definito buio e segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, rovistando nelle sue contraddizioni (per esempio il fascino per il prodigioso, sacro o mondano, la repulsione per il diverso, spesso percepito come mostruoso) trovò una lente che gli permise di interpretare, decriptare la società e la cultura contemporanee. Nasce così il guastatore della palude culturale italiana, il rivoluzionario capace di mettere insieme Kant e Superman, accademia e fumetti.
Scrittore, saggista, semiologo, docente universitario Umberto Eco è stato pienamente «dentro» la cultura italiana degli ultimi sessant’anni, al punto che non è esagerato dire che ha contribuito a cambiarla. Ma all’iniziò faticò non poco a essere riconosciuto, e accettato, in quella accademica, ostaggio dei baroni.
Mente «moderna» proprio nel senso che noi diamo oggi a questa parola, e cioè aperta, curiosa, rigorosa e al contempo giocosa, ironica: non estraneo alla riflessione politica, è stato un intellettuale nel pieno senso del termine. Per lui non esisteva cultura alta e cultura bassa, analizzava Mike Bongiorno (cui dedicò una irresistibile Fenomenologia) con lo stesso rigore riservato all’estetica di San Tommaso d’Aquino. Per dire: nello stesso anno della laurea partecipa a un concorso alla Rai, che vince (ma ha sempre negato di avere scritto le domande per «Lascia o Raddoppia»). Erano gli anni, per chi non lo ricordasse, quelli e i trenta venuti dopo, in cui gli intellettuali italiani consideravano la televisione come una pattumiera, ma assai meno necessaria.
Nessuno come lui ha saputo entrare nelle comunicazioni di massa, tv, giornali, libri per tutti. Mischiava le carte come nessuno, saperi, tecniche e discipline (filosofia, linguistica, strutturalismo, avanguardie letterarie e artistiche…) per cavarne analisi brillanti, talvolta spiazzanti (come l’Elogio di Franti, il cattivissimo del «Cuore» di De Amicis).
Per dire della sua spericolata disinvoltura. Nel 1962 pubblica «Opera aperta», analisi di testi letterari in termini strutturalisti a partire da «Ulisse» di Joyce, che fa discutere e diviene uno dei manifesti della neoavanguardia riunita l’anno dopo nel Gruppo ’63. Nel 1980 esce il romanzo storico medievale «Il nome della rosa» che suscita immediatamente consensi internazionali, best seller da oltre 12 milioni di copie, tradotto in mezzo mondo.
In mezzo, ci sta una inesauribile attività, anche accademica (amava moltissimo insegnare e il suo manuale «Come si fa una tesi di laurea» resta imprescindibile), anche «spicciola» (per anni ha tenuto una rubrica, la Bustina di Minerva, seguitissima, sull’ultima pagina de L’Espresso).
Osservatore ironico e avvertito, usando il grimaldello della semiologia ha dimostrato in ogni occasione di saper cogliere lo spirito del tempo. Il titolo di un suo saggio, «Apocalittici e integrati», del 1964, è diventato di uso comune.
Un’opera aperta è proprio quella che più riesce a produrre interpretazioni molteplici, adattandosi al mutare dei tempi e trovando agganci con scienze e discipline diverse. Tra i suoi meriti, c’è senz’altro quello di averci insegnato che per sovvertire i linguaggi occorreva prima di tutto conoscerli.
Chiaro che nelle mani di un cervello così, anche la forma romanzo – seconda solo al cinema, per popolarità, anche sul finire del secolo scorso - raggiunge l’apice. Attento alla cultura di massa e autore di paradossali e ironiche pagine su aspetti minori della realtà raccolte in «Diario minimo» negli anni Sessanta, era circondato da una stima unanime.
Della considerazione di cui godeva all’estero ha giovato l’Italia intera, un ritorno d’immagine paragonabile a quello di un grande marchio, Ferrari, o Valentino. Per anni ha rifiutato l’offerta di una cattedra dalle più prestigiose università americane. La Francia, che non è mai prodiga di complimenti con noi, ma continua a essere un sensibilissimo termometro della cultura occidentale, ieri ne ha tessuto un elogio commovente: Le Monde lo ha definito «il più erudito dei sognatori». È vero. Umberto Eco ha sognato moltissimo, ma non lo ha mai fatto da solo. L’ha fatto con noi.
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