L'Editoriale
Mercoledì 26 Aprile 2017
La crisi Alitalia
ha radici lontane
No a 1.300 esuberi per ottenere 12.500 licenziamenti. Un’insensatezza, ma per i dipendenti Alitalia era più importante punire la dirigenza. Questo dice l’esito del referendum aziendale. Quando si lascia l’ultima parola al popolo può succedere che le decisioni siano più di pancia che di cervello. Brexit insegna. In Colombia finalmente si era raggiunto l’accordo per porre fine alla guerra civile ed ecco che, chiamato a votare, l’elettore ha detto no per dispetto al governo. E anche in Italia il No referendario di dicembre 2016 ha finito col diventare una protesta antigovernativa.
Nel caso Alitalia vi era però un retropensiero. Negli anni lo Stato ha sempre ripianato i bilanci dissestati di quella che una volta era la compagnia di bandiera. Molti hanno pensato che anche questa volta i soldi dei contribuenti avrebbero tappato il buco. Ma sembra che Gentiloni non ci stia. Settecento milioni all’anno, circa due milioni al giorno non sono un costo sostenibile per un governo che si è visto ridurre il rating sul debito al livello di pre-spazzatura ed è nel mirino di Bruxelles per l’aggiustamento di bilancio.
Così Alitalia assume i contorni della fine di un’epoca. Quella dell’assistenzialismo di Stato. La mano pubblica che distribuisce a pioggia le entrate dei contribuenti accumula debito per soddisfare le clientele di categoria e corporative. La compagnia tricolore è un emblema di una stagione politica fondata sulla conquista del consenso a spese degli interessi dello Stato. Con il governo Berlusconi è stato fatto saltare l’accordo con Air France e Klm caricando sulle spalle del contribuente il peso di 800 milioni a fondo perduto, senza contare l’aumento dei prezzi sulla tratta Milano-Roma, fatto pagare ai viaggiatori e i debiti non pagati ai creditori italiani. Il tutto per presentarsi paladini dell’italianità alle elezioni del 2008.
Ma già otto anni prima era saltata una fusione con gli olandesi di Klm. I tulipani si erano irritati per avere visto boicottare il loro progetto di Malpensa come hub dell’Europa del Sud. La Roma della politica diceva sì a Milano, ma non voleva mollare l’osso di Fiumicino come aeroporto principale del Paese. Gli olandesi hanno capito e se ne sono andati con Air France.
Il vero punto debole di Alitalia è sempre stato il piano industriale cioè la capacità di prevedere nel tempo i flussi dei passeggeri e quindi le rotte più convenienti. Quando Cai (Compagnia aerea italiana) nel 2008 dà il via alla nuova Alitalia, alleggerita dei debiti della bad company, anziché puntare sulle destinazioni intercontinentali,che sono le più remunerative, si concentra sulla tratta Milano-Roma in regime di monopolio. Un riflesso condizionato del capitalismo italiano che si aggrappa alla «roba» descritta nei libri dello scrittore siciliano Giovanni Verga, come sinonimo di rendita e ripulsa di ogni rischio imprenditoriale di ampio respiro. Morale: l’alta velocità ferroviaria spazza l’unica entrata consistente di Alitalia mentre Ryanair e soci spopolano nei viaggi a corto raggio point to point.
E non è nemmeno vero che il problema sia la mano pubblica. Per esempio Air France ha tra i suoi azionisti lo Stato con il 17,6% e pur fra diverse traversie la compagnia francese è sul mercato e tiene. Il governo le copre le spalle ma i dirigenti sono autonomi, non rendono conto alla politica e rispondono del loro operato. Per Lufthansa il 70% del capitale è in mani tedesche e lo Stato vigila.
Alitalia è la vittima illustre dell’incapacità di distinguere tra gli interessi dell’azienda e quelli spiccioli dei singoli azionisti, politici in primis. Gli italiani hanno perso la loro compagnia di bandiera. L’ha ammazzata il malcostume nazionale.
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