La corsa alle urne
L’Italia in alto mare

Si stanno alzando diverse voci che mettono in guardia i partiti dalla precipitazione verso le urne in assenza di una legge elettorale coerente, cioè in grado di produrre un risultato politico di governabilità. Dopo Giorgio Napolitano, che non parla mai a caso, è stato il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda a dire: attenzione, il Paese potrebbe non reggere uno stato di lunga campagna elettorale con un governo dimissionario e con la prospettiva dell’instabilità politica. È un’allarme che ha un suo fondamento: in campagna elettorale i partiti non pensano ad altro che a farsi la guerra, e per cinque mesi Gentiloni rimarrebbe da solo a fronteggiare innumerevoli problemi. È vero che la legislatura ha esaurito la sua vitalità il 4 dicembre quando è stata bocciata la riforma costituzionale cui Renzi e il governo avevano legato il loro destino, e che il ricorso agli italiani, come ha detto Mattarella, è nelle cose.

Ma è pur vero che questa lunga fase «transitoria» ci coglie proprio mentre la «nave Italia» si trova in un mare agitato, con la tempesta in arrivo, con la costa lontana e con più di un’avaria.

Già ora corriamo il rischio di procedura di infrazione da parte della Commissione europea per deficit eccessivo. Se arrivasse, di fatto saremmo commissariati da Bruxelles: ci hanno chiesto di rientrare di alcuni miliardi pretendendo dal Tesoro risposte precise e provvedimenti immediati; noi prima abbiamo tentato di convincere gli eurocrati che non possiamo deprimere quella poca crescita che c’è e che sarebbe folle aiutare i «populisti», poi abbiamo inviato una lettera che equivale ad un generico «pagherò». Alla Commissione non l’hanno presa bene. Il 13 febbraio arriveranno le stime macroeconomiche dell’Unione e in quell’occasione vedremo se Gentiloni e Padoan avranno convinto Junker, Dombrovskis e Moscovici delle nostre buone ragioni. E comunque alcune risposte dovranno essere contenute nel Def da presentare a metà aprile, in piena campagna elettorale, cioè quando a volare sono le promesse più che le decisioni. E invece le decisioni sono necessarie, se non altro perché nei prossimi mesi occorre evitare che scattino nel 2018 le clausole di salvaguardia (19,6 miliardi da trovare) e perché bisogna far partire urgentissimamente il piano per il rilancio industriale se vogliamo che l’obiettivo della crescita all’1 per cento sia mantenuto. E come si sa, se non c’è la crescita, il debito non cala e se ci si mette di mezzo l’instabilità politica, i mercati ricominciano a galoppare: chi vorrebbe vedere di nuovo l’Italia prigioniera dello spread come nel 2011? Si potrebbe reggere dopo le elezioni un’altra soluzione «tecnica» alla Monti, magari pilotata da Francoforte?

Non solo, nei prossimi mesi occorrerà procedere alla stabilizzazione del sistema bancario, attuare il piano Minniti sull’immigrazione, dare continuità alla lotta anti-terrorismo, procedere in fretta alla ricostruzione nelle zone terremotate e affrontare non poche crisi industriali. Senza contare che il 25 marzo a Roma si celebrano i Trattati europei e a fine maggio l’Italia presiede il G7 a Taormina: due appuntamenti delicatissimi che arrivano mentre l’Europa è squassata da mille emergenze, non ultima quella rappresentata dalla bufera americana. E tutto questo dovrebbe essere guidato da un governo Gentiloni esangue, di per sé ridotto ad affrontare la sola ordinaria amministrazione perché fatto smontare dalla volontà del partito di maggioranza, sia pure tra mille contrasti e magari con una scissione in atto, di andare rapidamente alle urne. È chiaro, come dicevamo, che il voto è improcrastinabile, aldilà dei calcoli di convenienza politica che stanno facendo in tutti i partiti, ma - fuori di ogni partigianeria - bisogna pur avere la consapevolezza che l’Italia affronterà una fase difficilissima che i partiti si troveranno sulle spalle nel momento in cui dovranno pur mettere in piedi un governo.

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