La Chiesa africana
parla alla Chiesa

La Chiesa cattolica che si trova nel Nord del mondo, dove spesso era maggioritaria, si sta scarnificando. Quella che si trova nel sud del mondo, invece, dove è il più della volte minoritaria, sta conoscendo una vitalità sorprendente. Sullo stato di crisi della Chiesa cattolica i dati si moltiplicano. Quelli che riguardano la frequenza ai sacramenti, in particolare. Per la Messa domenicale i numeri sono costantemente bassi e al ribasso da tempo. Alcune inchieste dicono che a Roma, nel 2010, i bambini battezzati erano soltanto il 55 per cento, mentre sull’insieme dei nati in Italia, si parlava, per il 2009, del 70 per cento circa. I matrimoni in chiesa sono diventati rarissimi. Dunque, da noi il cattolicesimo, anche anagraficamente, sta spompandosi.

Papa Francesco è appena tornato dal suo viaggio in Africa, da questo sud del mondo per tanti versi affascinante. Alcuni servizi giornalistici recenti fornivano cifre interessanti sulla presenza della Chiesa cattolica. Nell’Africa subsahariana i cattolici erano un milione e novecentomila all’inizio del ‘900, 139 milioni alla fine del 2000 e 158 milioni nel 2009. La crescita dei cattolici è del 3,1, superiore quindi alla crescita, già di per sé notevole, della popolazione, che è del 2,5 per cento. In Nigeria e nel Congo ci sono più battesimi che in alcuni Paesi tradizionalmente cattolici, come Italia, Spagna e Polonia. Entro il 2050 tre Paesi africani saranno tra i primi dieci Paesi del mondo con più cattolici: la Repubblica democratica del Congo (97 milioni di cattolici previsti), l’Uganda (56 milioni), la Nigeria (47 milioni).

Diventa quindi importante chiedersi: la Chiesa africana che cosa porterà alla Chiesa? Porterà tanto, naturalmente. Ma, tra le molte realtà che l’Africa potrà travasare di suo nella Chiesa ce n’è una, mi pare, che si impone. Durante le liturgie africane del Papa si è visto, ancora una volta, come gli africani parlano con il corpo. Non si può concepire una Messa senza canti straripanti, corpi che si muovono, danze, molte danze soprattutto. Tutti i volontari e gli stessi turisti – quelli che non si limitano a trascorrere le ferie a Malindi e a fare battute di caccia in qualche riserva – tornano sorpresi da queste Messe di due, tre ore, così piene di colori, di canti, di corpi. È evidente che tutto questo lo si incontra nella liturgia perché esiste dappertutto. È l’insieme della Chiesa africana a essere segnata da una straripante vitalità.

Da un altro punto di vista, si potrebbe dire anche che la Chiesa dell’Europa e del Nord America ha affinato le proprie capacità di riflessione. Da noi anche le cose da fare o sono pensate o non sono. In Kenia e Uganda, Congo… si potrebbe dire, semplificando un po’, che è vero il contrario: anche le cose pensate o sono vissute o non sono.

Il corpo presente e la vitalità della Chiesa africana spiegano anche un altro tratto più «generale». La vecchia Chiesa del nord del mondo è preoccupata soprattutto di problemi ad intra, anche perché la società nella quale si trova è impegnata, da parte sua, ad affermare la propria laicità e quindi la propria distanza dalla Chiesa. Nel sud del mondo, invece, e nell’Africa subsahariana soprattutto, la Chiesa è impegnata ad affermare la sua presenza nella società. Quella Chiesa si chiede come essere un elemento significativo della società, del suo sviluppo e del suo futuro e quindi si preoccupa soprattutto dei problemi ad extra della Chiesa. Una Chiesa estroversa nelle sue liturgie lo è anche nel suo modo di stare e di vivere nella società.

Ai posteri, poi, oltre che ai pastori e ai credenti che vivono in quei Paesi, il compito di chiedersi quali potranno essere le difficoltà e i problemi che nasceranno da questa radicata «cultura del corpo» e da questa visione di una Chiesa «presente». Quello che è certo è che la Chiesa africana, Chiesa delle periferie per usare l’espressione a Papa Francesco, avrà la sua da dire a tutta la Chiesa e non solo a quella che vive a sud del Sahara.

© RIPRODUZIONE RISERVATA