L'Editoriale
Sabato 10 Giugno 2017
La Brexit non arretra
Nonostante le urne
vincere e perdere un’elezione. Ha vinto perché, pur perdendo dodici seggi invece di guadagnare la settantina in cui sperava e mancando anche, per sette seggi, la maggioranza assoluta, è riuscita a farsi ridare l’incarico dalla regina per formare un nuovo - sia pure molto precario - governo con l’appoggio dei dieci Unionisti irlandesi. Ha perso perché il clamoroso autogol dello scioglimento anticipato del Parlamento e una campagna elettorale disastrosa hanno gravemente leso la sua autorevolezza e il suo prestigio, inducendo non solo i leader avversari, ma anche alcuni importanti esponenti del suo partito, a chiedere le sue dimissioni. Ma a perdere è stata soprattutto la Gran Bretagna: famoso per la stabilità delle sue istituzioni, il Paese si ritrova alla vigilia dell’avvio dei vitali negoziati per la Brexit (fissati per il 19 giugno, proprio il giorno del discorso della Corona in cui Elisabetta II illustrerà il programma del May-2) con un esecutivo debole e raffazzonato, una premier che ha appena subito un sonoro schiaffo dall’elettorato e una linea politica tutta da definire: l’indispensabile alleanza con gli Unionisti irlandesi, accesi fautori di un’uscita «morbida» dall’Europa, non potrà non influire sulla linea dura seguita fin qui dalla May e indebolirà comunque la sua posizione negoziale.
Un altro problema che il governo dovrà affrontare con urgenza è la mancanza di funzionari preparati per il negoziato sulla Brexit e capaci di tenere testa all’agguerrita macchina bruxellese. Forse in un momento di confusione il ministro Davis, che nel precedente governo era il responsabile dei negoziati con la Ue, ha addirittura ipotizzato che il Paese possa tornare sui suoi passi. Ma, a ben guardare, l’umore del Paese non sembra questo: i partiti minori che auspicherebbero un nuovo referendum, i liberaldemocratici e gli indipendentisti scozzesi, hanno riscosso un consenso modesto o addirittura perduto seggi, rafforzando l’impressione che il ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’uscita dall’Ue sia irreversibile.
Sull’altro fronte, l’Ukip, che era stato il primo a chiedere l’abbandono dell’Europa, si è letteralmente liquefatto dopo avere raggiunto il suo obiettivo, scendendo dal 12% di voti del 2015 a poco più del due. Ma, paradossalmente, il grosso dei suoi voti non è andato alla May, per rafforzarne la mano nelle trattative, ma in molti collegi ha preso la strada dei laburisti contribuendo alla loro spettacolare rinascita, che rappresenta la seconda grande sorpresa dell’8 giugno. Fino a un mese fa, il partito laburista, guidato da un vecchio marxista fautore delle nazionalizzazioni e con un passato di amico di Castro e di Chavez, era dato per spacciato: nei sondaggi, il suo distacco dai conservatori era addirittura di 20 punti percentuali. Invece Corbyn, nonostante certe idee bislacche, è riuscito a fare tornare all’ovile parte della classe lavoratrice e soprattutto a mobilitare l’elettorato giovanile – tradizionalmente piuttosto assenteista – promettendo (per la verità, senza specificare con quali fondi) un grande rilancio dello stato sociale, rinazionalizzazione di quanto privatizzato dalla Thatcher e istruzione universitaria gratuita per tutti.
L’alta affluenza alle urne, quasi 69%, la cifra più alta da 20 anni, e forse anche il record delle presenze femminili a Westminster sono in gran parte merito suo; e ha coronato la sua affermazione con la ciliegina sulla torta della conquista del collegio di Canterbury, feudo dei tories da quasi cento anni.
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