Il destino dei cristiani
e lo scontro di Mosul

Uno come Saddam Hussein l’avrebbe chiamata «la madre di tutte le battaglie». Al netto della retorica bellicista, però, l’offensiva per cacciare le milizie dell’Isis da Mosul, seconda città dell’Iraq dopo la capitale Baghdad e centro nevralgico della Piana di Niniveh, rischia di influenzare in misura decisiva non solo il futuro prossimo dell’Iraq ma quello di una vasta porzione del Medio Oriente.

In primo luogo, bisognerà vedere quando e come la città sarà ripresa e riportata sotto il controllo del governo iracheno. Secondo le stime più accreditate, a Mosul sono rimasti dai cinque ai sei mila combattenti dello Stato islamico, che però tengono in ostaggio quasi un milione di civili. Quanto costerà la liberazione alla popolazione inerme? Il rischio di una seconda Aleppo c’è e non va sottovalutato, a dispetto della disparità delle forze in campo: da un lato poche migliaia di jihadisti, dall’altro la coalizione internazionale guidata dagli Usa, l’esercito regolare iracheno, i Peshmerga curdi e le Forze popolari di mobilitazione, ovvero le milizie degli sciiti iracheni addestrati dai pasdaran dell’Iran.

Il «come» di questa campagna è strettamente legato al «chi». In queste prime operazioni, che sarebbero già riuscite a sfondare la linea avanzata dell’Isis, i curdi si sono tenuti in disparte e così pure le Forze popolari di mobilitazione. Si avverte, dietro queste mosse, il lavorio della diplomazia e il tentativo di far ricadere la gloria per l’eventuale vittoria sul Governo centrale dell’Iraq e sul suo esercito. Sarebbe un segnale importante per la coesione del Paese, sempre incrinata dalle rivalità incrociate di curdi, sunniti e sciiti.

Ma l’esercito iracheno, a partire proprio dalla vergognosa ritirata da Mosul di due anni fa di fronte all’avanzata dell’Isis, potrebbe non bastare. Se fosse necessario il contributo dei Peshmerga curdi e delle milizie sciite, molte cose potrebbero cambiare. Per anni la politica irachena si è occupata, invano, dello status della città di Kirkuk, notevole centro petrolifero conteso tra i curdi (che vi erano un tempo maggioritari) e gli arabi sunniti (insediati nella regione da Saddam). Se contribuissero a liberare Mosul i curdi iracheni vorrebbero, ovviamente, un loro dividendo politico. Quale? E quali effetti tutto ciò potrebbe produrre sui nervi della Turchia, già scossi dalle repressioni di Recep Erdogan e comunque ipersensibili alle ambizioni curde?

Ancor più sensibile il tasto delle Forze sciite irachene. I sunniti, che sono la grande maggioranza nella Piana di Niniveh e quindi anche a Mosul, le detestano e le accusano di aver commesso violenze e crimini di ogni genere sui civili a Fallujah e nelle altre città dove sono state impegnate in combattimento. Accuse spesso provate e confermate anche dalle organizzazioni umanitarie, che hanno chiesto il loro ritiro. Invano. Anzi: settanta deputati, sciiti ovviamente, del Parlamento iracheno hanno addirittura presentato un progetto di legge per garantire ai volontari delle Forze la più totale immunità rispetto alle azioni commesse sul campo. Anche in questo caso, se il governo sciita dell’Iraq dovesse dare l’impressione, attraverso l’impiego delle Forze popolari a Mosul, di considerare i sunniti degli avversari invece che dei concittadini, le conseguenze potrebbero essere notevoli e certo non positive.

C’è poi la questione dei cristiani iracheni, che proprio a Mosul erano storicamente presenti e che nei villaggi della Piana si erano andati concentrando dopo la caduta di Saddam Hussein e la conseguente ondata di violenze. Molti di loro sono emigrati, molti altri sono esuli da anni in Kurdistan. Riusciranno a tornare? Il loro scoramento è ormai forte, come la consapevolezza che a infierire su di loro, due anni fa, non furono solo le incombenti milizie dell’Isis ma anche, e spesso con la maggiore spietatezza, proprio i musulmani al fianco dei quali avevano vissuto.

Reinsediare i cristiani sarà difficile, ma andrà comunque fatto. E bisognerà magari resistere alle sirene di coloro che da anni immaginano, proprio nella Piana, una specie di «riserva indiana» per i cristiani. La parcellizzazione dell’Iraq secondo linee etnico-religiose sotto forma di federazione, che tanto piace alla politica anglosassone, durerebbe assai poco, aprirebbe la strada a nuovi conflitti e avrebbe nelle minoranze come quella cristiana la prima vittima sacrificale. Se infine vittoria sarà, come tutti sperano e credono, bisognerà anche valutarne la qualità. L’ideale sarebbe che le milizie dall’Isis annidate a Mosul venissero annientate. C’è anche la possibilità, però, che americani e iracheni si accontentino di liberare la città lasciando esfiltrare i combattenti islamisti verso la Siria, dove andrebbero a raggiungere i commilitoni impegnati ad Aleppo e altrove. Non è malignità, solo realismo. In quel caso, però, vedremmo crescere ancora le violenze in Siria e, inevitabilmente, le tensioni tra Russia e Usa. Cosa di cui non si sente per nulla il bisogno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA