Industria 4.0
Non solo lavoro

Il ministro Calenda non perde occasioni per annunciare che il governo è intenzionato ad adottare, già nel prossimo patto di stabilità, misure su Industria 4.0. Queste intenzioni hanno ottenuto una grande attenzione in particolare dai media che agiscono nei territori segnati da una forte presenza industriale. Il progetto industriale 4.0 si propone di coniugare le potenzialità delle tecnologie di produzione alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dando vita a una organizzazione produttiva di nuova qualità.

Un modello di organizzazione che supera lo statico modello industriale nel quale siamo vissuti per dare il via e uno fondato su sistemi intelligenti (sistemi fisico-informatici) con software integrato che raccoglie i dati in tempo reale, da salvare e analizzare e implementare il mondo fisico (la macchina), e farli interagire con il mondo digitale (Internet).

Senza essere esperti tecnologici o profeti, ci si rende conto che se questi sistemi fisico-informatici verranno introdotti in modo pervasivo ed esteso nel mondo industriale e anche in quello dei servizi, produrranno cambiamenti qualitativi e quantitativi nel mondo del lavoro del prossimo futuro e credo che avranno effetti sulla stessa dimensione antropologica, sociologica, culturale ed esistenziale dei lavoratori.

Per vivere la nuova fase della globalizzazione l’Italia e Bergamo possono e devono aprirsi a questa prospettiva che viene definita come la quarta rivoluzione industriale. In tutti i discorsi che si fanno, belli e significativi e sorretti da un certo ottimismo futurista, ciò che mi appare estremamente debole è l’assenza di una riflessione approfondita e critica sulla ricaduta che si avranno sul lavoro, sull’occupazione, sulle dinamiche relazionali e territoriali.

Su questo terreno si scontrano gli apocalittici che paventano disastri e i futuristi che invece preconizzano nuovi soli dell’avvenire tecnologicamente sostenuti. Sono due posizioni che però a mio parere sfuggono alla realtà. La storia ci ha insegnato che ogni innovazione tecnologica che si è applicata al lavoro ha prodotto tensioni, fratture, lacerazioni e sofferenze, ma nello stesso tempo siamo stati testimoni di come le innovazioni abbiano migliorato la vita e il lavoro. Per questo bisogna essere nello stesso tempo realisti e un poco utopisti.

Discutiamo con attenzione di Industria 4.0, ma non ignoriamo che all’interno di questo processo ci stanno delle persone in carne ed ossa, con desideri, passioni, sofferenze e gioie e che ogni innovazione tecnologica produce ricadute sull’organizzazione della società. Ecco perché già da ora servirebbe operare per creare un prerequisito di fondo: mettere i lavoratori nella condizione di assumere e fare propri gli impulsi dell’innovazione nel loro vissuto lavorativo, sociale, relazionale e famigliare. La formazione permanente diventa una esigenza.

La storia sociale del nostro Paese ci aiuta a presagire che le innovazioni non potranno essere introdotte nei processi produttivi e lavorativi in modo automatico e deterministico (quasi che l’innovazione sia più da subire che da gestire) ma che sarà necessario nel progettare l’Industria 4.0 pensare a una organizzazione del lavoro intelligente, e coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali, anche attraverso l’invenzione di processi di cooperazione e di formazione capaci di promuovere una sempre costante e permanente competenza innovativa.

L’approccio a questa profonda e per certi aspetti radicale innovazione del produrre e del lavorare dovrebbe fondarsi sulla prospettiva di una progettazione sociale capace di orientare l’impatto tecnologico non solo all’espoliazione di mansioni e dei compiti per affidarlo alla automatizzazione dei processi organizzativi e produttivi come in molti casi sta avvenendo, ma elaborare una nuova idea di occupazione, di uso del tempo e del lavoro.

Negli Usa alcuni rappresentanti del mondo digitale, hanno iniziato a ragionare di una società «senza lavoro», in cui le tecnologie digitali e i robot che costituiscono la base dell’Impresa 4.0, prenderebbero il posto di molti lavoratori, verrebbe così a formarsi una società al cui centro non starebbero più i lavoratori ma i «non -lavoratori», con un sistema di welfare che garantirebbe a tutti un reddito, senza un impiego. Sono idee e propostiti che contrastano con la visione dell’umano che è propria della nostra tradizione culturale che si è fondata sul detto «chi non lavora non mangia» e che farebbe perdere una delle ragioni fondamentali del nostro essere uomini: il lavoro come fonte del ruolo sociale e della cittadinanza.

Il lavoro è per tutte le persone un modo significativo per vivere nella complessità sociale, predispone all’astrazione, alla soluzione dei problemi, dà senso al vivere con altri, aiuta a pensare nei processi globali e a semplificare le situazioni.

La rivoluzione digitale e l’Industria 4.0 ci obbliga a riformulare l’idea di lavoro e a ripensare i lavori. Alle lavoratrici e ai lavoratori saranno richieste nuove competenze, nuovo localizzazione, diverse forme di flessibilità e una capacità di auto-organizzazione, di abilità comunicativa e di intervento personalizzato.

Nello stesso tempo si deve iniziare a pensare a una nuova organizzazione sociale del lavoro in cui una parte dovrà essere utilizzata nelle mansioni produttive o di servizi, ma una parte tutti la dovremo dedicare a lavoro di cura (famiglia, anziani, disabili, bambini, servizi comunitari, ecc.). In breve: le capacità soggettive e le potenzialità delle persone dovranno essere valorizzate al massimo e in una molteplicità di attività e avere una retribuzione non per il non lavoro, come sostengono i fautori del salario garantito a tutti, ma per la diversificazione dei lavori da svolgere.

Questo offrirebbe l’opportunità di migliorare la qualità del lavoro, accrescere le competenze personali e mettere in campo positivamente la propria soggettività in un intreccio positivo tra vita, sapere e lavoro.

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