Incendiari e pompieri
100 giorni di governo

Cento giorni vissuti pericolosamente, ma la luna di miele con l’elettorato continua, premiando più Salvini che Di Maio: può essere interpretata così la prima fase del governo Conte. Un esecutivo che scarta con radicale discontinuità rispetto alla consuetudine, figlio anche del passo indietro con il proporzionale. Non un’alleanza vera e propria, bensì un contratto fra due azionisti: una componente antisistema e l’altra fattasi da padana a nazionalista, con amicizie pericolose. Più la terza matrice, quella mattarelliana (i ministri Tria e Moavero), chiamata a rassicurare partner europei e mercati.

In mezzo il premier, le cui buone maniere non sembrano pari ad una sintesi efficace: un ruolo, quello del giurista Conte, condannato a stare in questa nicchia. La sciagura di Genova ha aggravato un noviziato politico anomalo, perché il tandem Salvini-Di Maio intende essere non solo un cambio della guardia, ma di sistema su un terreno scivoloso: concezione della democrazia e della sovranità popolare, bilanciamento fra poteri, rispetto dei diritti umani e dei trattati internazionali, alleanze in giro per il mondo.

Finora s’è visto uno stacco fra le promesse e le loro sostenibilità. Le prime, in termini di spread, ci costeranno circa 6 miliardi. Le seconde, come sa Di Maio, pagano il rumoreggiare della base: lo s’è visto con l’accordo, pur positivo, sull’Ilva di Taranto. Se fai le cose ragionevoli, perdi per strada i militanti radicali. I cento giorni riflettono il prolungamento della campagna elettorale.

La competizione fra i due soci, confinata inizialmente nelle rispettive sovranità (immigrazione a Salvini, area sociale a Di Maio), s’è risolta a vantaggio del ministro dell’Interno che ha tenuto la scena e ha condotto un po’ tutte le partite, tant’è che il leader grillino intende ora passare alla fase 2, cioè alla controffensiva. Salvini ha usato la ruspa nella gestione migranti: la vicenda «Diciotti» gli ha portato consensi, ma restano la lesione del diritto umanitario e non solo. La scomposta reazione alla magistratura che lo ha indagato rivela la contraddizione della doppia morale: si vorrebbe affermare un garantismo non violato, là dove il governo promuove una linea securitaria su tutto il resto. Lo stile comunicativo del governo, che è sostanza, appare schematico: prima si va alla baionetta, poi si rincula, quindi si media se e quando è possibile. Incendiari e pompieri a seconda dei temi e dei giorni. Non s’è persa occasione per andare allo scontro con l’Ue, salvo recuperare un po’ di realismo. Quella dei vaccini è una storia penosa e un po’ su tutto domina l’incertezza.

In attesa di vedere cosa succede con lo stop domenicale ai negozi e con la «pace fiscale» che sa di condono, il primo assaggio è venuto con il «decreto dignità» voluto da Di Maio con la stretta ai contratti a termine e con una venatura anti industriale: qui le proteste di Confindustria hanno lasciato il segno, convincendo il governo a qualche correzione. Restano i capisaldi del contratto: flat tax, reddito di cittadinanza, riforma delle pensioni. Un pacchetto ora magari addomesticato, differito lungo l’arco della legislatura. La legge di bilancio sarà l’esame della capacità di governo per la credibilità del sistema Paese.

Bisogna far di conto, la ricreazione dei proclami sta per finire, arriva il tempo della prosa, delle compatibilità. L’augurio, per il bene dell’Italia, è che si trovi la quadra, ma per ottenerla occorre addomesticare, o differire, alcune delle parti più discutibili dell’intesa. O meglio: farlo sì, dato che non si può andare a sbattere, cercando però di convincere i propri elettorati che le cose non stanno così, perché il contratto di governo è sempre vivo e lotta insieme a noi.

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