In Libia
evitiamo gli errori

Proprio guardando gli sviluppi della vicenda libica, occorre ricordare che l’Italia repubblicana ha sempre avuto un rapporto conflittuale con qualsiasi ipotesi di guerra: per cultura diffusa, scelte politiche, realismo. Anche nel caso della Libia di oggi i sondaggi escludono il consenso dell’opinione pubblica ad un eventuale intervento militare. Altro che acchiappafarfalle come chi vorrebbe difendere l’interesse nazionale con elmetto e scarponi sul terreno. Certo con qualche inciampo perché talvolta abbiamo preteso di entrare a gamba tesa, ma nel complesso la condotta storica è stata rispettata: quella cioè di nteporre gli obiettivi politici a un velleitario interventismo militare.

Tradizione vuole una sinergia fra utilizzo degli strumenti diplomatici e partecipazione militare per mantenere e rafforzare la pace. Bene o male negli anni della guerra fredda abbiamo fatto il nostro mestiere, mettendo a disposizione il capitale geopolitico di cui disponevamo: quello di essere la frontiera occidentale a est e a sud.

La politica mediterranea è stata una costante dell’azione italiana: con l’Eni di Mattei, Andreotti e il Craxi di Sigonella. I critici lo chiamavano terzomondismo levantino, in realtà ha costruito uno stile, relazioni che con il tempo il mondo della cooperazione ha esteso, ci ha aperto porte ad altri precluse, ci ha consentito un certo protagonismo. Eravamo e dovremmo essere consapevoli che la geografia e i limiti di una media potenza regionale come l’Italia ci configurano come un «ponte» : non un confine, ma un transito. I muscoli li lasciamo ad altri. Ieri abbiamo cercato di portare l’Europa in Medio Oriente, oggi il cammino è inverso: trasferire le attese delle popolazioni della sponda sud del Mediterraneo nell’assise europea. Tutto questo non ha impedito di assumere le nostre responsabilità, di essere parte di missioni militari: là dove è stato possibile lo abbiamo fatto con lo stile tutto nostro, non da truppe di occupazione ma con uno sguardo alla dimensione civile e pagando un alto tributo di sangue.

Una storia che può iniziare con la decolonizzazione: l’eccidio di Kindu del ’61, nel Congo ex belga, dove 13 aviatori italiani vengono trucidati mentre, sotto l’ombrello Onu, portavano aiuti alla popolazione. Il Mozambico, persino Timor, il Libano degli anni ’80 con l’epopea dei bersaglieri di Angioni «italiani brava gente», la Somalia (una parte di quel territorio a suo tempo era in amministrazione fiduciaria italiana), il ciclo bellico dei Balcani (la «guerra umanitaria», si chiamava così, con la prima volta di un ex comunista al governo, D’Alema), la sciagurata guerra di Bush in Iraq, la campagna in Afghanistan dove siamo tuttora e il ritorno di nuovo in Libano.

Ad oggi l’Italia è impegnata in una trentina di missioni internazionali. Vent’anni di conflitti hanno lasciato sul terreno pochi dividendi della pace e, a parte qualche relativa eccezione, hanno collezionato disastri su disastri: dalla Somalia, caposcuola in negativo dello Stato fallito, all’Iraq per non parlare dello «scatolone di sabbia» libico, dove anche l’Italia ha commesso i suoi errori. Il recente passato ci dice che l’azione militare unilaterale, spesso dal sapore neocoloniale, non sana le ingiustizie che vorrebbe risolvere ed è un moltiplicatore del terrorismo che si vorrebbe contenere: il realismo, dettato dalla sostenibilità politica dei costi umani e dal deficit di conoscenza di mondi così vicini e così lontani, impone forme alternative di risoluzione delle crisi.

Ben sapendo che in un’Italia abituata legittimamente a rimuovere la guerra dal discorso pubblico, in questa fase storica, popolata da conflitti asimmetrici e terrorismo nomade, il confine fra guerra e pace sfuma e la stessa distinzione fra interventi per stabilizzare le istituzioni e missioni militari vere e proprie diventa incerta prestandosi a qualche ambiguità. Serve trasparenza e qui carta canta: c’è la Costituzione, ci sono le prerogative del Parlamento e del presidente della Repubblica. Quella libica per noi è una prova di maturità dopo i trascorsi fallimenti: per evitare che un sentiero già stretto diventi un vicolo cieco.

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