L'Editoriale / Bergamo Città
Giovedì 18 Agosto 2016
Immigrati, le risposte
di chi fa e di chi parla
Dal palco di Pontida Matteo Salvini martedì sera ha riproposto un classico del suo repertorio ad uso delle folle: l’accusa alla Chiesa (nel caso specifico la Curia di Bergamo) per «i guadagni sull’accoglienza dei richiedenti asilo». L’accusa, oltre che infondata e diffamatoria, è talmente reiterata da passare ormai quasi inosservata. Eppure mistificando la realtà, lascia il segno dell’ingiustizia gratuita, delle parole che possono ferire come pietre.
Abbiamo già avuto modo di rimarcare come ci sia accoglienza e accoglienza. I 35 euro giornalieri per ogni migrante ospitato (cifra stabilita dal ministero dell’Interno; quando era guidato dal leghista Roberto Maroni era di 45 euro) non lasciano margini di guadagno a chi, come la Caritas bergamasca, ha assunto mediatori culturali, interpreti e altro personale ed ha avviato progetti sociali che rendono efficace l’accoglienza dando risposte ai problemi e disinnescando possibili tensioni sociali, avvenute invece in altre province.
A Ventimiglia solo l’intervento della diocesi locale ha permesso di rendere meno traumatica la situazione al confine con la Francia, mettendo a disposizione locali e volontari per ospitare i migranti respinti dal governo parigino. Ma tutta la Chiesa italiana è impegnata a dare risposte a quella che non è più un’emergenza ma un dato strutturale di questa epoca: la più grave crisi migratoria in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Un impegno che non sottrae nulla alla carità (un obbligo, non un’opzione per i cristiani) esercitata a favore degli italiani vittime della crisi economica. I dati più aggiornati (al 1° giugno scorso) e pubblicati dalla rivista «Limes», indicano che in Italia «il numero complessivo degli accolti da strutture ecclesiali è di 23.202 individui, pari a più di un quinto delle persone (circa 123 mila) assistite dall’intero sistema di accoglienza italiano. Di esse, più di 14 mila (62%) sono ospitate nelle 714 strutture ecclesiali di prima accoglienza, quasi 4 mila (17%) nelle 257 strutture impegnate nella seconda accoglienza, quasi 4.600 (20%) sono state accolte in 473 parrocchie (nelle pagine di cronaca oggi diamo conto dell’impegno svolto da quelle bergamasche, ndr) e più di 330 (2%) nelle 159 famiglie resesi disponibili a rispondere all’appello di Papa Francesco. Le risorse per l’accoglienza di questa moltitudine umana arrivano per un quarto (circa 50 milioni di euro all’anno) dalle libere offerte dei fedeli, alleggerendo di tale importo la spesa per l’accoglienza che altrimenti graverebbe in toto sul bilancio statale». Questa è la radiografia della risposta cristiana alla crisi migratoria, tutt’altro che priva di limiti e fatiche. Ridurla alla categoria abusata del «buonismo» o peggio al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina significa non fare i conti e non volersi sporcare con la realtà (don Milani si chiedeva «a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca»). Che può non piacerci, ma è quella che ci è data vivere.
Parole e opinioni in libertà si sprecano sul tema: hanno un senso solo se ancorate a fatti. Sul fronte interno, soltanto ora il governo italiano sta predisponendo un Piano nazionale che rimedi ai ritardi accumulati: verrà messo in atto un tentativo di distribuire più equamente la presenza dei migranti nei territori (attualmente sono ospitati solo nel 25% degli 8 mila Comuni) facendo leva su incentivi quali la deroga al patto di stabilità, lo sblocco del turnover per le assunzioni nelle polizie locali, nei servizi sociali e anagrafici.
Sul fronte esterno, il panorama è noto. Finché la Libia (principale punto di partenza di chi è diretto in Europa, insieme all’Egitto, nostro alleato...) non sarà stabilizzata, governare il fenomeno sulle frontiere resterà improbo. Chi parla di respingimenti in mare o blocchi navali, dovrebbe assumersi la responsabilità di tali proposte: le coste libiche e quelle italiane sono separate da 500 km di mare e i respingimenti di imbarcazioni sempre più sovraccariche di persone le consegnerebbe al naufragio. Si è disposti a pagare in termini morali un simile, tragico esito?
I rimpatri via terra dopo gli sbarchi, constatata l’assenza dei requisiti per accedere all’asilo o alla protezione umanitaria, sono costosi (nel 2015 sono stati spesi 35 milioni di euro per eseguirne il 46%) e richiedono accordi con i Paesi d’origine dei migranti. Anche la Germania, indicata come simbolo d’efficienza, lo scorso anno ha portato a termine solo 21 mila delle 50 mila espulsioni previste. E si è inventata il cosiddetto «status di tolleranza»: chi ne beneficia ha l’obbligo di lasciare il Paese ma non può essere espulso.
Di fronte a un fenomeno che è diventato appunto strutturale ed è destinato a durare per un ventennio, secondo stime autorevoli, varrebbe però la pena allargare e approfondire lo sguardo. Le risposte nazionali infatti hanno il respiro affannoso di chi vuole svuotare il mare (tanto per restare in tema...) con il cucchiaino. I migranti che approdano sulle nostre coste per motivi economici arrivano in prevalenza dall’Africa. Se l’Africa è il problema, può diventare però anche la soluzione. Il 70% della popolazione ha meno di 30 anni ed è mediamente più istruita rispetto alle generazioni precedenti. Il continente ha immense ricchezze, poco o mal sfruttate (agricoltura) o depredate (petrolio e minerali preziosi). Ma partecipa al commercio mondiale con una quota solo dell’1,5%. Investire a sud del Mediterraneo in settori quali formazione, infrastrutture ed energia conviene anche all’Europa, però in termini di interessi condivisi, non di priorità imposte. La cooperazione internazionale ben fatta, nel suo piccolo ottiene esiti interessanti: solo quella italiana in Senegal in tempi recenti ha generato una quarantina di piccole e medie imprese per 2.800 posti di lavoro. Nel 2013 un altro investimento nello stesso settore, ha creato 10 mila posti in Tunisia. Si tratta solo di due esempi dell’impegno virtuoso di chi cerca risposte concrete, tenendosi lontano dai facili, vuoti slogan che alimentano le tensioni ma non affrontano i problemi che hanno la pretesa di denunciare.
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