Il Trump che verrà
Un’America coi muscoli

Tre ex generali nei posti-chiave per la difesa esterna e interna. Ovvero James Mattis alla guida del Pentagono, John Kelly alla Sicurezza interna e Michael Flynn nel posto di consigliere per la Sicurezza nazionale. Più un petroliere, Rex Tillerson, presidente e amministratore delegato della Exxon Mobil, come ministro degli Esteri al Dipartimento di Stato. Che generali, peraltro. Mattis, detto anche «Cane pazzo», è un marine con molte esperienze di combattimento e di comando ai massimi livelli, anche della Nato.

Kelly, anche lui un marine, è l’ ufficiale più alto in grado di tutte le forze armate americane ad aver perso un figlio in combattimento: Robert, tenente dei marine, ucciso in Afghanistan. E l’ altro figlio maschio di Kelly è anche lui un ufficiale dei marine. Flynn, il più giovane dei tre (è del 1958), ha cominciato come combattente in operazioni sul campo e via via è salito ai vertici dei servizi segreti militari. Anche il petroliere non è un petroliere qualunque: Tillerson, noto per essere stato anche capo di tutti i boy scout d’ America, dirige da dieci anni la seconda più grande società petrolifera del mondo e amministra risorse energetiche e finanziarie superiori a quelle della gran parte degli Stati del mondo. Questi pochi cenni biografici dei principali ministri già scelti per il prossimo Governo, servono a farci capire che Donald Trump si sta attrezzando per la guerra. Tutta la sua presidenza, peraltro, nasce all’ insegna del conflitto. In primo luogo interno: non s’ era mai visto che un Presidente in carica (Barack Obama) chiedesse alla Cia (cioè all’ agenzia che si occupa dello spionaggio estero) di indagare sul modo in cui il politico destinato a succedergli (Trump, appunto) ha ottenuto i suoi voti. Perché questo è, in sostanza, l’ inchiesta che Obama ha chiesto alla Cia sulle presunte influenze russe sul voto di novembre.

La guerra cui si prepara Trump, però, non è quella fatta di eserciti, operazioni militari, invasioni. Quella, per intenderci, generata dagli interventismi, diversi nei metodi ma non nella sostanza, di Bush e Obama e che Trump ha criticato per tutta la lunghissima campagna elettorale. Il nuovo Presidente cerca uno scontro diverso, in un certo senso ancor più impegnativo: quello degli Usa con le loro abitudini. Ciò che ha portato Trump alla presidenza non sono le battute a effetto o le sparate contro Hillary Clinton ma la promessa di riorientare la presenza americana nel mondo. Se vogliamo, una promessa di egoismo. Trump e i suoi seguaci giudicano la politica Usa degli ultimi decenni come presuntuosa (perché ha preteso di intervenire in troppe situazioni lontane, dall’ Iraq all’ Ucraina) e ingenua (perché nel farlo ci ha rimesso). Soprattutto questo secondo aspetto tormenta i trumpiani, che seguono il neo eletto nella polemica contro i trattati commerciali internazionali, le strategie di export della Cina, la partecipazione alla Nato, l’ Opec (l’ Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio) e in generale contro tutte le entità che approfittando della situazione, hanno contribuito a indebolire gli Usa e a impoverire l’ americano medio.

Inutile discutere se Trump dica sciocchezze o verità. A dargli ragione hanno già provveduto gli elettori Usa. Ora conta solo ciò che Trump vorrà o potrà fare. Se davvero vorrà rinegoziare i dazi con la Cina, chiedere agli europei di spendere di più per la Nato o penalizzare le aziende Usa che delocalizzano all’ estero. Ma il Governo che prepara dimostra che l’ intenzione c’ è, buona o cattiva che sia. Trump ha bisogno di gente d’ esperienza e che conosca il mondo (qualità che a lui mancano), ma sappia anche pensare in modo meno convenzionale dei politici di professione. Le sue scelte, almeno per ora, si spiegano così.

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