Il socialismo europeo
è arrivato ad un bivio

C’è un problema socialista, oggi in Europa? È un interrogativo legittimo, dopo le elezioni francesi, ma soprattutto guardando a partiti che, ancora alle europee del 2014, erano poco sotto i popolari. «Le Monde» li ha passati in rassegna e si sono salvate solo due realtà di tipo diverso: la performance inattesa dell’old laburista Corby e il ruolo di primo «socialista» europeo di Matteo Renzi, entrato da poco nella famiglia con decisione cinica e fulminea. Per il resto, in Francia il Ps sta tra il 6,5 delle Presidenziali e il 9,5 delle Politiche (da 289 a 46 deputati), la Spagna ha dimezzato i parlamentari, la Germania paga la sottomissione alla Merkel ed è già spenta l’iniziale fiammata di Schultz, la Grecia è al 6,5 dopo essere stata al 43,9. In Polonia, i socialisti sono letteralmente scomparsi. Nei Paesi più piccoli sono al 5,7 in Olanda (erano al 24,7), al 6,6 in Islanda (26,8). In Belgio sono il terzo partito, in Finlandia il quarto. Resistono in Norvegia, Danimarca, ma sono all’opposizione in Svezia. In buona salute restano solo in Portogallo, Svizzera, Malta, Romania (dove però hanno appena sfiduciato il loro primo ministro). Hanno perso verso i populisti ma anche verso la destra, il riscatto sembra dipendere solo dalla francese trasmutazione liberal.

Tuttavia, anche questa tendenza deve confrontarsi con la contraddizione del successo (tale è stato) del veterolaburismo di Corby, polverosamente post marxista, tutto spesa pubblica, tasse, nazionalizzazioni. Per capire se davvero il sol dell’avvenire è tramontato, e se può risorgere, proviamo allora a escludere queste ultime indicazioni come anomalie, da attribuire in Usa allo scarso appeal della Clinton e nel Regno Unito alla debolezza della May. Come molti dicono, un buon candidato del new labour l’avrebbe polverizzata.

Riflettere sulle possibilità di un nuovo corso di socialismo liberale come tendenza possibile nella moderna sinistra europea, ci consente se non altro di utilizzare categorie note.

In definitiva, i socialismi in natura sono due, nonostante le mille sfumature della sinistra italiana, uno spettro che va dai nostalgici buoni per dibattiti strumentali sulle tv di destra, come Ferrero e Rizzo, passando attraverso Pisapia, sostenitore di un improbabile Prodi e forse garante dei vari D’Alema, Bersani, Speranza, fino, sull’altro versante, al moderatissimo Gentiloni. Sinistra ampia ma frammentata, in disaccordo su quasi tutto, con Renzi che divide e impera.

Semplificando, si intravedono comunque due socialismi di sempre, quello socialdemocratico e quello massimalista. Il primo ha oggettivamente vinto la sua battaglia storica, anche se in grande ritardo, arrivando in Italia al governo mezzo secolo dopo le intuizioni di Turati e lo sfortunato rilancio di Saragat nel dopoguerra. Il secondo, segnato dal complesso di inferiorità, talora di colpa, verso il fratello comunista, sopravvive ancora nelle urne europee non più come speranza proletaria, ma rabbiosa risposta degli emarginati alla crisi. Melenchon, in Francia, lo ha freudianamente battezzato «insoumise», che potremmo tradurre: testardo nel non accettare il cambiamento. Per questa concezione, Macron non è un socialista e la tentazione della scomunica sarà forte, appena comincerà a realizzare il suo programma.

La differenza tra i due socialismi, è che quello più estremo non ha vie evolutive davanti a sé, salvo suicidarsi buttandosi a destra o sul populismo. Il secondo può invece evolversi e dunque rinnovarsi, con una capacità di affermazione e recupero verso i giovani.

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