Il rilancio di Renzi
Il rebus alleanze

E così sarà il Lingotto il simbolo del nuovo corso di Matteo Renzi. Nel bagno di folla militante, con partecipazione superiore alle aspettative, l’ex premier ed ex segretario del Pd ricomincia il suo percorso insieme agli alleati che gli sono rimasti intorno e che tuttavia gli hanno mandato a dire una cosa importante: non serve un uomo solo al comando, se vuoi esser il nostro capitano - come gli ha ripetuto il governatore del Piemonte Chiamparino - devi abituarti a dire «noi» più che «io». E in effetti Renzi sembra aver capito il messaggio sin dalle prime battute dell’assemblea torinese: promette più collegialità e la fine del Giglio magico che in queste settimane lo sta facendo soffrire e che mette a rischio la sua stessa credibilità politica.

Ora che i suoi avversari più acerrimi sono fuori delle mura del partito e che improvvisamente tace il cannone che ha martoriato ogni giorno da mesi il quartier generale, non resta a Renzi che affrontare il populismo alla meridionale del pugliese Michele Emiliano, puntuto ma sicuramente minoritario.

Il punto di riferimento dialettico di Renzi è invece Andrea Orlando che è stato scelto dalle correnti come il «campione» della sinistra interna che non ha seguito D’Alema. O almeno di una parte, dal momento che abilmente, come suo secondo, Renzi ha scelto il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, il giovane ex bersaniano che ha abbandonato da tempo il suo capo corrente e si è messo in luce nella prova del governo. Questo perciò che riguarda la vita interna di partito.

Quanto alle prospettive politiche e alla strategia da adottare da qui al voto e oltre, è stato Dario Franceschini, il più influente degli alleati di Renzi, a chiarire come si muoverà il nuovo Pd. Il discrimine, ha detto il ministro dei Beni culturali, è tra populisti e responsabili, e di questi ultimi i democratici si candidano ad essere i portabandiera. Da una parte Grillo e Salvini, dall’altra le forze che sono sperimentate nel governo, che sanno parlare con l’Europa e trattare con i partner, che hanno credibilità e sanno rassicurare i mercati. Ha detto Martina: senza il Pd non si battono le destre; ha aggiunto Padoan: «Solo le forze responsabili sanno imprimere all’Europa il nuovo corso che ne eviterà la deflagrazione». E tutto questo sarà sicuramente il messaggio fondamentale del Pd alle elezioni (quando si terranno, ormai l’anno prossimo): no alle avventure, no all’uscita dall’Europa, sì alle riforme nella stabilità. Se questo è lo schema politico, bisogna chiedersi a chi pensano i renziani e i franceschiniani quando parlano di «altre forze responsabili». E l’impressione è che il Pd già pensi che sarà necessario costruire una grande coalizione alla tedesca che eviti l’ingovernabilità fatalmente derivante dalla divisione del sistema politico in tre tronconi quasi identici tra centrosinistra, centrodestra e grillini. Ma certo se a sinistra ci sarà sicuramente Pisapia, a destra sarà inevitabile pensare a Silvio Berlusconi, ormai sempre più distante dal populismo lepenista di Matteo Salvini, ieri duramente contestato a Napoli.

La sostanza di tutto ciò è che il Pd renziano del «nuovo corso» si proporrà all’elettorato come la forza ineliminabile, il vero bastione contro una deriva che già oggi spinge più d’uno ad evocare il fantasma pauroso della Repubbluca di Weimar, l’incubo di ogni sincero democratico, conservatore o riformista che sia.

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