Il requiem del Papa
per due profeti

Il libro più graffiante del secondo Novecento italiano l’ha scritto un prete e l’ha pubblicato una piccola casa editrice fiorentina nel maggio 1967. Si intitola «Lettera a una professoressa» e il suo inizio folgorante fa risuonare quello, leggendario, di Moby Dick: «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate». L’autore era don Lorenzo Milani, aiutato dagli alunni della scuola di Barbiana, una canonica sugli Appennini a pochi chilometri da Firenze ma lontanissima dal mondo. Adesso è difficile capire lo tsunami che il libro provocò sull’Italietta del miracolo economico, eppure ancora afflitta dalla miseria e dall’arretratezza.

Fu sbandierato come il libretto rosso del Sessantotto nostrano, finì al centro di seminari in tutte le università occupate e alla Biennale di Venezia ne fecero uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Parlava dell’obbligo scolastico, che nell’Italia di fine anni Sessanta era ancora disatteso, soprattutto dallo Stato, che nei fatti consentiva un doppio binario d’istruzione. I figli dei ricchi, diceva don Milani (ricchissimo di famiglia), avevano già tutte le parole a casa, prima ancora di andare a scuola, e se arrancavano sui banchi potevano permettersi le ripetizioni private per sfangare la pagella. I figli dei poveri invece partivano indietro, condannati al ritardo e lasciati soli dai professori fino alla bocciatura, che li trasformava in carne da fabbrica. Un tema, questo dell’uguaglianza, validissimo anche oggi ripensando in chiave critica il mondo global, perché il problema di nascere nella culla sbagliata è ben lontano dall’essere risolto.

«Fa ridere quasi come un libro umoristico – diceva Pier Paolo Pasolini – e immediatamente dopo viene un groppo alla gola tanto è la verità del problema che pone. In queste pagine c’è una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia: la capacità di trasfigurare l’odio e il senso di vendetta verso gli altri che, una volta approfonditi e liberati, diventano amore». La gerarchia ecclesiastica non la pensava così. Don Lorenzo Milani era finito nei guai qualche anno prima: aveva capito l’importanza dell’amore per le persone più che per le idee, stava troppo vicino alle sue pecore per non prenderne l’odore e quindi, sì, puzzava di comunismo. Quando era curato a San Donato di Calenzano, periferia industriale di Firenze, durante il funerale dell’operaio Libero aveva accettato in chiesa, sia pure controvoglia, le bandiere del Pci. E poi si era inventato una scuola serale: subito sostituita da una innocua corale, nel 1954, alla morte del suo parroco, che lo proteggeva.

È anche per questo che il 23 novembre 1954 viene nominato priore della chiesa di Sant’Andrea a Barbiana, frazione di Vicchio, nel Mugello: sono 460 metri sul livello del mare ma sembrano quattromila. Non c’è telefono, non c’è corrente elettrica, per ritirare la posta tocca scendere fino all’ufficio di Vicchio. Non c’è, beninteso, una strada per le auto. Fino a un mese prima la Curia fiorentina aveva pensato di non mandarci nessuno perché per quelle 39 anime bastava e avanzava un prete che andasse su a dir Messa la domenica. Durante il trasloco, nel freddo pungente dell’inverno e fradicia di una pioggia quasi cattiva, la fida Eda Pellegatti, che si prendeva cura di lui dal 1947, continuava a ripetere al priore: «Ma ha visto dove ci hanno buttato?».

A Barbiana le giornate sono lunghe, le Messe solitarie, i pensieri pesanti. Don Milani è consapevole che si tratta di un esilio e lo accetta virilmente. Al risveglio dopo la prima notte passata in quel deserto decide che comprerà una tomba nel minuscolo cimitero. E al pomeriggio inizia ad allestire una scuola per ragazzi. Si aggrappa all’insegnamento come un naufrago alla zattera. Ma quando scrive a sua mamma che i ragazzi venuti a curiosare nella casa del priore «aspettano ansiosamente la scuola», mente spudoratamente. Non aspettavano la scuola e non aspettavano lui. La mamma capisce, e tace.

Però, giorno dopo giorno, quei ragazzi, li conquista. E ne finirà conquistato. «Cari ragazzi – scriverà anni dopo nel suo testamento – ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto». Nato all’avvento del fascismo, vissuto nell’Italia democristiana, morì alla vigilia del Sessantotto e ne diventò un santino, quasi sempre a sproposito, come dimostra Alberto Melloni nell’introduzione alle Opere complete nei Meridiani. Accarezzò sempre la vita contropelo, anche nell’agonia del malato terminale, a soli 44 anni, nel letto di casa della madre. Morì portando su di sé le stimmate dei fallimenti di una generazione, gli sforzi falliti di rinnovamento di un Paese smarrito e malato, i tentativi frustrati di riforma della Chiesa, il sogno di una sinistra davvero popolare, non salmonata, e l’utopia della beatitudine dei poveri che solo adesso vediamo fiorire nella primavera bergogliana. Poveri intesi in senso manzoniano, la moltitudine dei senza volto a scuola, nei campi e nelle fabbriche, cuori affaticati che stantuffano miserie figlie di ingiustizie secolari, eternamente esclusi dall’ascensore sociale.

Più di un prete, più di un maestro, don Lorenzo Milani è stato un profeta. Pensava cose giuste, ma in anticipo sui tempi. Troppo, per la gerarchia ecclesiastica, che lo ammonì e lo mandò sotto processo dalle autorità civili per la sua intransigenza evangelica verso la guerra e chi benediceva gli eserciti. «Lettera a una professoressa» gli costò una vera e propria persecuzione che lo braccò fino alla morte con accuse infamanti senza che potesse conoscere la carezza amorevole del perdono ecclesiastico.

Papa Francesco, che nutre per don Milani un’autentica venerazione (dopo 53 anni ha tolto la revoca di pubblicazione a «Esperienze pastorali», l’altro capolavoro del priore di Barbiana), andrà questa mattina a pregare sulla sua tomba. La tomba dove il suo corpo riposa vestito con i paramenti sacri. Poche ore prima Bergoglio si inginocchierà anche a Bozzolo, sulla tomba di don Primo Mazzolari, un altro prete inquieto che la gerarchia ecclesiastica mandò in esilio in una pieve mantovana, sperduta sugli argini del Po. Papa Francesco lo fa per riparare tutto il male che la Chiesa in passato ha fatto a questi due suoi figli, negando loro il perdono quando erano in vita.

Se vi state chiedendo perché il Santo Padre compie questa visita in forma privata, e perché resterà in silenzio sulle due tombe, provate a pensare ai vostri figli: pensate all’ultima volta che l’hanno combinata grossa e voi li avete sgridati e puniti e magari umiliati. Pensate per un momento se, per disgrazia, fossero morti mentre erano ancora in castigo e aspettavano il vostro perdono. Pensate al vostro dolore nell’accorgervi – dopo, molto dopo – che invece avevano ragione e che voi, quel perdono, glielo avete negato. Adesso che sono morti, ed è troppo tardi, troppo tardi per tutto, le parole, se mai vi arrivassero, non servirebbero più.

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