L'Editoriale
Giovedì 15 Dicembre 2016
Il rebus Siria
e la strage da fermare
L’assedio di Aleppo Est da parte delle forze di Assad è stato e continua ad essere uno degli eventi più cruenti del nuovo millennio: oltre ai ribelli, sotto le bombe russe e siriane sono morti migliaia di civili - donne, vecchi e bambini compresi - e altrettanti sono deceduti per fame o mancanza di cure. Per giorni e giorni sono arrivate notizie di eccidi di ostaggi, di esecuzioni di prigionieri, di uso di armi chimiche e di altri crimini di guerra (di cui si sono rese colpevoli entrambe le parti) senza che il resto del mondo reagisse veramente per fermare lo scempio.
Come ultimo atto, ieri è stata anche rotta, sembra per volontà del comandante del contingente iraniano che combatte al fianco delle truppe di Assad, la tregua negoziata da Russia e Turchia per consentire agli ultimi ribelli e a quel che resta della popolazione civile di evacuare la città. Uno degli insorti ha twittato:«Questo è il mio ultimo messaggio, mi appresto a morire»; e quando leggerete queste righe potrebbe essere già morto.
Tuttavia, al di là di questi orrori , il fatto che i lealisti, assistiti dai russi, dagli iraniani, da milizie sciite irachene e afghane e dagli Hezbollah libanesi, stiano per completare la conquista della città (il ministro degli Esteri russo ha parlato di due-tre giorni) offre anche un’occasione per porre fine a una guerra civile che dura da oltre cinque anni, ha fatto 500.000 morti e prodotto 6 milioni di profughi.
Il piano che sta prendendo forma in questi giorni nei colloqui riservati tra Washington e Mosca (e che avrà qualche possibilità di successo soprattutto se Trump e Putin miglioreranno, come promesso, i rapporti tra i due Paesi) parte da un presupposto che non piacerà a tutti: Bashar Al Assad, che ha represso la rivolta con incredibile brutalità e che fino a un anno fa americani ed europei volevano cacciare a ogni costo, ha vinto e rimane in sella. Ha ripreso il controllo delle cinque principali città e visto diminuire gradualmente consistenza, resistenza e perfino popolarità dei ribelli, moderati e islamisti. Egitto e Turchia, che volevano a loro volta abbatterlo, hanno ammorbidito le loro posizioni. Certo, il Califfato continua ad occupare Raqqa e la provincia di Idlib, ma a sconfiggerlo penseranno iracheni, americani e curdi.
Il difficile sarà ora di indurre Assad a porre termine alle ostilità dopo la resa degli ultimi insorti, e ottenere in cambio una amnistia e un via libera al ritorno dei profughi . A questo dovrà provvedere in primo luogo Putin, senza il cui aiuto Assad sarebbe già stato scacciato, ma che ora ha interesse a districarsi da un conflitto che ha certamente rafforzato la sua posizione nello scacchiere mediorientale, ma è anche assai oneroso per le sue finanze. Gli americani, dal canto loro, dovranno smettere (hanno già cominciato) di fornire armi e soldi ai ribelli, ma hanno il dovere morale di garantire almeno il futuro dei curdi siriani, che sono tuttora i loro migliori alleati nella lotta contro l’Isis e occupano oggi una grossa parte della Siria nordorientale: Washington dovrà ottenere per loro da Damasco la concessione di una regione autonoma, e se necessario proteggerla con una «no fly zone», simile a quella che, dopo la guerra del Golfo, impedì a Saddam di distruggere il nascente Kurdistan iracheno. Anche l’Europa - a parte la comprensibile riluttanza a venire a patti con un tiranno - ha interesse a questa soluzione, perché consentirebbe a molti siriani oggi in cerca di asilo di rientrare in patria. Inutile dire che sulla strada della pace (o almeno di una solida tregua) rimangono molti ostacoli: la espressa volontà di Assad a combattere fino all’eliminazione dell’ultimo ribelle, la estrema frammentazione della rivolta che spesso si sottrae a ogni influenza esterna, l’irriducibile ostilità della Turchia alla sola ipotesi di un Kurdistan siriano. Ma se USA e Russia si mettessero davvero d’accordo, i contendenti non potrebbero che abbozzare. Del resto, per un Assad indebolito da una guerra infinita potrebbe anche trattarsi di una vittoria di Pirro: si troverebbe a governare di nuovo un Paese devastato, ormai diviso da odi feroci e dove sopravvivrebbe certamente una resistenza sotterranea da parte dei sunniti sconfitti. Ma almeno si metterebbe un primo stop al macello.
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