L'Editoriale
Lunedì 28 Maggio 2018
Il Quirinale si oppone
alla deriva anti euro
E ora? Ora che succede? A ottantaquattro giorni dalle elezioni politiche, l’Italia non ha ancora un governo. Né si vede la possibilità di trovare uno sbocco alla situazione che si è creata. Giuseppe Conte, presidente incaricato privo di una sia pur minima autonomia politica, ha rinunciato al tentativo di formare un governo di grillini e leghisti dopo che il capo dello Stato ha bocciato ancora una volta il nome del ministro dell’Economia che i leader dei partiti alleati provavano a imporre. Salvini e Di Maio ora protestano, chiedono che si vada rapidamente alle urne.
La loro propaganda elettorale sarà contro l’Europa «che ci impone i ministri», e probabilmente contro Mattarella «che fa gli interessi della Germania». In questo stallo il presidente della Repubblica con ogni probabilità formerà un governo tecnico, o «neutrale» come preferisce chiamarlo - ha convocato Carlo Cottarelli -, che non avrà una maggioranza in Parlamento, che dunque sarà battuto e ci porterà alle elezioni anticipate non appena avrà varato la nuova manovra di Bilancio.
Tutti hanno capito che siamo dentro una crisi politica gravissima che difficilmente – così stando le cose – le prossime elezioni potranno risolvere senza aumentare i rischi di radicalizzazione, di scontro frontale, di demagogia grossolana. Ma questa crisi politica è aggravata da uno strappo istituzionale altrettanto inquietante: mai, nella storia della Repubblica, un presidente era stato strattonato così apertamente dai partiti al momento di esercitare le sue prerogative costituzionali, tra le quali c’è la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri. Si possono fare tanti esempi, tra quelli noti almeno, di bocciature quirinalizie di nomi di ministri del passato: tutti i presidenti del Consiglio hanno accettato senza fiatare. Questa volta no, Salvini soprattutto ma ora anche Di Maio, chiedevano mano libera riducendo Mattarella a un semplice notaio. Se il capo dello Stato avesse piegato la testa, oggi la presidenza della Repubblica non esisterebbe più per come è percepita in Italia e nel mondo: l’unico punto fermo in una situazione politica e istituzionale caotica.
Ma perché Mattarella non ha accettato? In un discorso drammatico, di grande spessore istituzionale, lo ha spiegato: perché non si poteva mettere a rischio la collocazione europeistica dell’Italia (secondo trattati che abbiamo firmato e impegni sottoscritti) nominando un ministro dell’Economia come Paolo Savona che avrebbe spinto per l’uscita del Paese dall’euro con possibili conseguenze disastrose sulla tenuta del nostro sistema economico. Non era certo un veto personale su Paolo Savona, lo sperimentato ex ministro ed economista, ma lo stop a una deriva che Mattarella, pur avendo sostenuto la formazione di un governo politico tra le forze vincitrici delle elezioni, si è preso la responsabilità di fermare per il bene di tutti. Un «no» preso non a cuor leggero, certamente. Ma viene un momento nel quale «la Costituzione deve prevalere», e con essa lo Stato, cioè la sicurezza di noi tutti che ne siamo cittadini. Il capo dello Stato ha spiegato ieri sera nel più difficile discorso della sua vita, che c’è un livello superiore di responsabilità che va rispettato e che deve andare al di là dello scontro politico, della propaganda, dei calcoli di bottega di chi magari, in questa vicenda, ha cercato un pretesto per puntare a nuovi guadagni elettorali.
Salvini e Di Maio ora tireranno le somme di questa partita politica che si è chiusa, ognuno farà le proprie valutazioni, ma se dovessero cedere alla tentazione di fare del Quirinale il loro «avversario» della campagna elettorale finirebbero per arrecare un colpo letale alle istituzioni. Sarebbe un «cambiamento», ma nel peggiore dei modi. Speriamo che ne siano consapevoli.
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