Il piccolo zar
dalla corsa veloce

Se sei più piccolo, corri. A dispetto della vulgata che lo vuole nazionalista oltre ogni limite, Vladimir Putin è un realista. Sa benissimo di non poter lanciare la sua Russia in una competizione globale con gli Stati Uniti di Barack Obama oggi e della Clinton domani.

Sa che l’economia russa non può tenere il passo dello schiacciasassi industriale americano. Che l’apparato militare ai suoi ordini (meno di 100 miliardi di dollari di budget) è uno scricciolo al confronto con quello americano (quasi 700 miliardi di dollari di budget). Che l’apparato culturale e tecnologico (Massachusetts Institute of Technology, Stanford e Harvard, ecco le tre migliori università del mondo: tutte americane) garantisce agli Usa un primato mondiale.

Quindi Putin corre. E lo fa svelto come una lepre. Basta scorrere gli eventi degli ultimi tempi. Gli Usa spendono cinque miliardi di dollari per «esportare la democrazia in Ucraina»? E lui decide in una notte di riprendersi la Crimea. Obama briga con i sauditi per far cadere Assad e portare la Siria dall’orbita sciita a quella sunnita? Lui manda i bombardieri e rovescia tutte le carte.

Il G20 cinese ha appena confermato le doti «podistiche» del presidente russo. Ha stretto un accordo con l’Arabia Saudita per mettere sotto controllo il prezzo del petrolio e ha scambiato pacche e sorrisi con il presidente turco Erdogan, con il quale vuole rilanciare il gasdotto del Mar Nero. Con due «nemici» (sia i sauditi sia i turchi volevano la pelle di Assad) è riuscito a parlare e concordare una linea. Poi ha firmato accordi con i cinesi, ha incontrato la premier britannica Theresa May, protagonista di quella Brexit che secondo molti è tanto gradita al Cremlino, ha invitato Abu Mazen e Netanyahu a trovarsi proprio al Cremlino per riprendere le trattative di pace. Uno spasso, l’idea che Netanyahu, giusto per mettere un altro dito nell’occhio a Obama, possa accettare.

E poi c’è l’asse vero o presunto con Donald Trump. E ci sono gli hacker che, secondo i democratici, lavorano per i servizi segreti russi per render pubblici i poco edificanti retroscena delle recenti performance politiche di Hillary Clinton. E anche questa finisce nella serie grasse risate al Cremlino, perché proprio Obama è il presidente che ascoltava le telefonate di Angela Merkel e di Francois Hollande attraverso i suoi spioni, quindi oggi che si lamenta a fare?

Vladimir Putin, però, è un capo intelligente. Il Kgb, in cui militò a lungo, sapeva benissimo quali erano le condizioni reali dell’Urss, e infatti riuscì a mettere al vertice Jurij Andropov, uomo dei servizi, che al Cremlino rimase però solo un anno e mezzo. Lui, oggi, conosce altrettanto bene i limiti della sua azione politica. La sua condanna è il contropiede. Si difende e riparte, ottiene vittorie sorprendenti. Ma in quel modo è difficile vincere il campionato.

Prendiamo la Siria: Putin ha mandato a monte i piani di americani e sauditi, ma che potrà fare in futuro? Quale Siria ha in mente? L’Ucraina: se gli americani e i loro alleati (polacchi, baltici…) pensavano di intimidire Mosca e metterla di fronte al fatto compiuto, hanno sbagliato i conti. Ma poi? Da qui in avanti? Il vero risultato dell’azione politica esterna di Vladimir Putin sta in un paradosso. La potenza americana ha inventato il «soft power» per trascinare gli alleati senza dover impiegare la propria forza. Putin, giocando in difesa e mettendo in campo una straordinaria tenacia, è diventato l’esempio. Di come si può proteggere la propria autonomia e il proprio stile senza chinare (troppo) il capo di fronte al gigante americano. Nell’epoca della globalizzazione ingiusta e dei nazionalismi rampanti, seguaci e imitatori non mancano. E lui lo sa.

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