Il Papa spalanca
le porte della Chiesa

A ben vedere non c’è alcuna novità nelle parole che Papa Francesco ha detto ieri mattina sul decentramento e sul primato di Pietro. Sta già tutto scritto da due anni nella «Evangelii gaudium», l’Esortazione apostolica guida del pontificato. La novità è che ieri mattina Bergoglio ha ripetuto tutto per filo e per segno. Forse si procede a rilento? Forse quelle porte delle Chiese che lui vuole più aperte faticano a girare su cardini un po’ troppo arrugginiti? La devolution bergogliana è una prospettiva nota e da mesi inquieta la Curia romana e non solo. Così come il rafforzamento dello strumento del Sinodo.

Fino ad ora, cioè fino a Bergoglio, è stato uno strumento blandamente consultivo. Lui invece decide di convocarne due sullo stesso tema, sapendo di mettere sul tavolo questioni controverse. Non tutti sono stati d’accordo con la scelta di Bergoglio e 13 cardinali lo hanno anche chiaramente detto all’inizio del Sinodo, malamente nascondendosi dietro questioni di ordine procedurale. Ma Bergoglio non si è lasciato impressionare e ha invitato a smetterla di cercare complotti dietro ad ogni angolo. Poi pochi giorni fa ha confidato che il dibattito franco del Sinodo gli piace molto.

Ancora una volta ha sbaragliato la convinzione di chi sperava che il Papa si ravvedesse e riportasse tutto a sé, alla sua decisione di capo della Chiesa con l’aiuto della Curia, evitando derive dottrinali, morali, pastorali e chi più ne ha più ne metta. Ieri nel mezzo di un Sinodo oggettivamente complicato Bergoglio ha sparigliato di nuovo tutte le carte sostenendo che non solo il Sinodo è un ottimo strumento, ma va rafforzato, anzi tutta la Chiesa, dai laici ai vescovi al Papa, deve camminare insieme alla pari con l’unica preoccupazione di portare il Vangelo per le strade, ognuno facendo la propria parte in virtù del battesimo. Ha parlato di «conversione del papato» e non di «riforma del papato». Ha spiegato di nuovo che il popolo fedele a Dio non sbaglia, impastando Concilio e teologia del popolo, variante argentina e ben più efficace della teologia della liberazione. Ha spiegato cosa vuole che sia la Chiesa e cosa deve diventare il papato, come riguardarsi dalla tentazione del potere e da quella di diventare notabili dell’evangelizzazione.

Parole che hanno stupito solo gli immemori o chi sperava che Bergoglio si desse una regolata. Tempo fa disse che in Vaticano c’è l’ultima corte europea. Non ha cambiato parere. Sicuramente intende trasformarla, e lo fa a partire dalla sua figura. Anche nei gesti quotidiani, come dar la mano alla guardia svizzera impettita fuori dal Sinodo. In questi anni ha accorciato le distanze tra il Papa e il popolo, spingendosi molto più in là di Karol Wojtyla e ha cambiato definitivamente la percezione attorno al Romano Pontefice. Con il discorso di ieri ha ribadito tuttavia che non si tratta di una ristrutturazione degli organigrammi e nemmeno di un riordino istituzionale. Non riforma, ma conversione. Non un colpo di Stato contro la Curia e contro se stesso, ma edificazione di una Chiesa dove il servizio dell’autorità sia addirittura di esempio per gli Stati.

Bergoglio dimostra di conoscere i rischi che corre un papato troppo carismatico, se la rappresentazione che ne fanno oscura il centro e ostruisce la strada al Vangelo. A qualcuno non piacerà il discorso di ieri e anche di questo è consapevole. Una volta in un’omelia mattutina a Santa Marta ha detto: «Possiamo oggi chiedere allo Spirito Santo che ci dia la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille dentro la Chiesa». Ieri ha fatto esattamente così.

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