Il Papa in Colombia
per costruire la pace

Francesco vola in Colombia mentre lo scenario internazionale diventa sempre più inquieto. Il vento di guerra che soffia dalla penisola coreana con le provocazioni del «caro leader» di Pyongyang, le risposte classiche del resto del mondo che minacciano le solite inutili sanzioni, l’allarme lanciato da Vladimir Putin sui rischi di una catastrofe globale, la voce grossa di Donald Trump che agita truppe e promette altre piogge di missili, accompagnano la missione in Colombia di Bergoglio, ventesimo viaggio all’estero dall’inizio del pontificato.

Il Papa è partito questa mattina da Roma e atterra a Bogotà quando in Italia sarà notte. Va a parlare di pace e di riconciliazione in un Paese che ha deciso di mettere fine ad una delle più lunghe guerre a bassa intensità del mondo e ha fatto un numero di vittime impressionante.

Va a dire che per la pace, il perdono, la ricostruzione di una memoria condivisa del passato indispensabile per costruire il futuro, è necessario che qualcuno dica: «Demos el primer paso». Cioè: «Facciamo il primo passo». Questo è il motto del viaggio in Colombia, ma insieme è il messaggio che Francesco lancia al mondo intero percorso dai conflitti e dalle tensioni, in ore cruciali. Così la riconciliazione e la ricostruzione della società colombiana su basi diverse che il Papa chiederà in questi giorni al popolo della Colombia di avviare con coraggio, diventa il paradigma di un processo che Bergoglio vuole sia diffuso in tutto il mondo.

Il Papa vola verso Bogotà in un momento drammatico, come avvenne nel 1968 per Paolo VI, primo Papa a visitare la Colombia e primo Papa a mettere piede in America Latina. Era il 22 agosto e due giorni prima nella notte tra il 20 e il 21 i carri armati sovietici entravano a Praga per soffocare la Primavera di Dubceck. Montini, prima di salire sull’aereo a Fiumicino, pronunciò un breve discorso con il cuore straziato per l’invasione della Cecoslovacchia. Parlò di pace «fieramente vulnerata» e disse: «Dio non voglia che non lo sia mortalmente». Sono passati quasi cinquant’anni e sembra che il mondo non abbia imparato nulla e come allora si continua a giocare con l’equivoco attorno alla parola nazione, addirittura minacciando una sorta di genocidio preventivo solo per proteggere la propria di nazione. È quello che sta facendo il dittatore nordcoreano in questi giorni, ma è anche quello che da tempo sta accadendo in Medio Oriente con il conflitto siriano. Anche le parole d’ordine di Donald Trump, quell’odioso «American First» che arma conflitti interni e fa salire la tensione internazionale con la minaccia delle «risposte appropriate», fa parte di una cospirazione di molti verso il diritto internazionale e verso ciò a cui si deve invece tendere: la progressiva collaborazione delle nazioni e dei popoli.

Oggi le parole solidarietà e dialogo e la loro traduzione diplomatica, cioè negoziato, sembrano allontanarsi dallo scenario mondiale. La piccola Colombia invece ha scommesso su di esse e ce l’ha fatta non senza momenti drammatici. Ha trovato persone che hanno mantenuto il punto, non si sono scoraggiate, sono andate avanti con cocciutaggine anche quando tutto sembrava perduto, come davanti ai risultati del referendum popolare che bocciò l’accordo. Molti hanno accettato di fare il primo passo, insieme, fidandosi, guardandosi negli occhi. Non si può dire che la Colombia sia arrivata alla fine del percorso. La pace deve essere costruita mattone su mattone e l’impresa sarà lunga e faticosa. Ma Bogotà è riuscita nel primo passo decisivo. Non così per tanti altri.

Ecco perché il ventesimo viaggio del Papa assume un significato che va oltre i confini della Colombia. A Bogotà si è accesa una speranza e la Colombia può essere considerata un laboratorio di come si può fare a superare conflitti, a trovare nuove parole di dialogo, a non perdere lucidità e tenacia anche quando tutto sembra essere avverso e perduto. Il metodo può andare bene altrove e quel «Facciamo il primo passo» è un motto che potrebbe essere benissimo applicato nella penisola coreana e in Medioriente, nell’Europa inquieta dei nazionalismi e nell’America dilaniata da Trump. Ma occorre che tutti siano d’accordo sul fatto che i nodi debbano essere sciolti e non rafforzati in vista della pace e che tutti siano convinti che nulla è inevitabile e ineluttabile.

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