Il Paese civile
e la visita Onu

Definire il carattere di un popolo o di un Paese con un aggettivo negativo è molto pericoloso. Sui social network il dibattito sui migranti è tra i più gettonati (non solo lì peraltro) e capita di leggere accuse da sinistra che qualificano l’Italia come razzista. Uno stigma falso, che ci inchioda a un’accusa totalizzante e generalizzata non vera. Esistono persone razziste o xenofobe e i due termini non sono sinonimi: le prime credono nella superiorità di una razza che legittima discriminazioni, le secondo hanno paura dello straniero. Ieri due giornali schierati a destra davano conto in prima pagina di una notizia importante, con questi titoli: «Vuole indagare per razzismo gli italiani. L’Onu straparla» (Libero) e «Italiani razzisti e violenti. Manicomio Onu. Comunista e amica di dittatori: ecco chi ci accusa» (il Giornale). Si tratta di evidenti forzature rispetto a un fatto: l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha deciso di inviare ispettori in Italia per verificare «il riferito forte incremento di atti di violenza e razzismo contro migranti, persone di origini africane e rom».

Una missione verrà condotta anche in Austria e prossimamente in Germania e negli Stati Uniti. L’Italia ricevette una visita già nel 2016, quando al governo c’era Renzi, per verificare le condizioni di vita nei Centri di identificazione ed espulsione. Si tratta quindi di ispezioni quasi di routine, per valutare il rispetto dei diritti umani sulla base delle leggi internazionali.

In questa occasione l’Alto commissariato (da pochi giorni guidato dalla Bachelet, socialista già presidente del Cile e figlia di un generale vittima della repressione di Pinochet: lei stessa e la madre hanno subìto arresti e torture) avrà nel mirino, oltre alle aggressioni nei confronti di migranti, la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative (il rispetto del diritto alla protezione internazionale) e l’aumento dei morti nel Mediterraneo (700 solo a luglio e ad agosto e un centinaio l’altro ieri al largo della Libia). Nelle parole dei comunicati delle Nazioni Unite non c’è alcuna accusa preventiva né tantomeno giudizi finali: il verbo più ricorrente è verificare. Ma è indubbio un numero: la dozzina di migranti aggrediti in due mesi (due sono morti, altri feriti), l’ultimo domenica scorsa. Uno straniero è stato pestato a sangue da cinque ragazzi a Sassari. Il giovane della Guinea, 22 anni, arrivato in città come rifugiato e ora studente, ha incrociato il gruppo e uno di loro gli ha sferrato una gomitata. «Perché mi fai questo?», gli ha chiesto sorpreso l’africano. «A casa mia faccio quello che voglio, se non ti sta bene tornatene a casa tua», gli ha risposto l’aggressore, assestandogli un pugno al volto. Poi i cinque ragazzi si sono scagliati contro di lui massacrandolo di botte. Le urla di alcune giovani hanno attirato i numerosi passanti. Un uomo alla guida di un furgone ha fermato il mezzo ed è intervenuto per evitare che il pestaggio continuasse. Questi fatti gravi sono spesso catalogati come goliardate quando compiuti da giovani (come i sassi che all’epoca venivano lanciati dai cavalcavia autostradali «per noia», figurarsi) e meriterebbero invece un approfondimento rispetto al clima sociale imbruttito ed elettrico, allo sdoganamento di parole povere di contenuto («le parole sono pietre» diceva Carlo Levi) ma aggressive anche da parte di esponenti governativi, dell’assenza di una ferma denuncia da parte degli stessi. Un Paese civile lo è perché sa porsi dei limiti invalicabili. E non ci sono però che tengano: «Sì, è sbagliato aggredire gli immigrati, però anche loro aggrediscono e commettono furti» si sente dire spesso. Quei però sono già un chiavistello che apre la porta alle giustificazioni, alla concessione di alibi alla violenza. Lo sappiamo: i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700 (il 33% dei reati complessivi compiuti) ma la risposta non è la legge del taglione. Per governare la rabbia e l’ostilità di una parte degli italiani non servirebbero le visite dell’Onu, ma dare voce e merito al Paese civile, come quell’uomo che ha fermato il furgone per sedare il pestaggio, perché a tutto c’è un limite.

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