Il nucleare coreano
una sfida per Trump

«Se la Cina non risolverà il problema della bomba nordcoreana, lo faremo noi». Domenica, questo tweet di Donald Trump (seguito a una simile presa di posizione del segretario di Stato Tillerson) ha messo in allarme il mondo intero, perché molti esperti sono convinti che ormai solo un’operazione militare possa fermare la corsa del giovane Kim Jong-un verso un’arma all’idrogeno, mille volte più potente di quella di Hiroshima: sarebbe, cioè, un’operazione militare che comporterebbe rischi enormi, perché il regime di Pyongyang, per quanto destinato ultimamente alla sconfitta, è già in grado con l’arsenale di cui dispone (da 20 a 25 bombe) di provocare in poche ore milioni di morti nella Corea del Sud e perfino nel Giappone.

Ecco perché l’incontro che Trump avrà giovedì e venerdì in Florida con il presidente cinese Xi, e in cui il problema coreano è in cima all’agenda, rischia di diventare un passaggio decisivo della sua presidenza.

È da vent’anni che gli americani cercano invano - mediante negoziati, sanzioni, promesse di aiuti economici, cioè un misto di bastone e carota - di arrivare a una denuclearizzazione della penisola coreana. Il problema principale è sempre stato che la Cina, un po’ per i legami storici tra i due Paesi e un po’ per la paura delle conseguenze di un collasso del regime di Pyongyang, collaborava solo a metà, continuando a comprare il carbone nordcoreano, fornendo ai Kim, padre e figlio, tutto il carburante di cui avevano bisogno e applicando solo in parte le sanzioni decise dall’Onu. Ultimamente, tuttavia, i rapporti Pechino-Pyongyang sono peggiorati, la Cina ha sospeso parte dei rapporti commerciali e stretto i freni al contrabbando e per reazione i nordcoreani sono arrivati a chiamare i cinesi «burattini di Washington». Nello stesso tempo, anche a Pechino sono aumentate le preoccupazioni per i rapidi progressi missilistici e nucleari di Pyongyang e le notizie su una sua vasta disponibilità di armi chimiche e biologiche.

Gli americani, perciò, sperano che Xi si decida ad accettare un ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche e soprattutto che si impegni ad applicarle senza eccezioni. Tuttavia, neanche se (e si tratta di un grosso se, tenuto conto dei vari altri contenziosi esistenti tra i due Paesi) Cina e Usa si mettessero d’accordo, ci sarebbe alcuna certezza di fermare Kim. Il giovane dittatore, sulla cui sanità mentale non mancano i dubbi, sembra deciso ancor più di suo padre di fare della Corea del Nord una potenza nucleare di prima grandezza, capace di tenere testa non solo all’arcinemica America ma anche alla «amica» Cina. Continua a lanciare missili di varia portata, sta preparando un settimo test nucleare, avrebbe una forte scorta di litio 6, la sostanza che viene usata per trasformare un’atomica di prima generazione in una bomba all’idrogeno. Nei giorni scorsi il regime ha addirittura avuto la sfacciataggine di offrire, tramite un annuncio sul giornale che faceva capo alla sua ambasciata a Pechino, una fornitura semestrale di 10 chili di litio 6 attraverso il porto cinese di Dandong. Come dire, non solo ne abbiamo abbastanza per distruggervi, ma possiamo anche cedervene un po’.

Oltre ad essere rischiosa, l’opzione militare presenta anche grosse difficoltà pratiche. L’idea di distruggere preventivamente missili e rampe di lancio è stata scartata perché è impossibile neutralizzare in un colpo solo tutto l’arsenale di Kim, mobile o nascosto in grotte. Forse la carta migliore in mano a Washington è la cyberguerra, già tentata (con successo solo temporaneo) da Obama. Si tratterebbe cioè di arrestare i missili nordcoreani subito dopo il lancio, facendoli esplodere ancora sul proprio territorio.

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