Il lavoro
non è un accessorio

Nelle prossime settimane sarà uno dei temi più scottanti dell’agenda politica; un tema che sarà discusso soprattutto per i numeri che lo riguardano, non per il contenuto che introduce. Assisteremo a polemiche sui conti, senza capire che cosa quel provvedimento comporta. Stiamo parlando del Reddito minimo, cavallo di battaglia dei 5Stelle e inserito nel contratto di governo firmato con la Lega di Salvini. È una misura che in buona parte dei Paesi europei è presente e questo basta a renderla legittima agli occhi dei proponenti.

In realtà in Europa il reddito minimo è vincolato sempre all’impegno fattivo di una ricerca del lavoro da parte del beneficiario e dovrebbe essere così anche in Italia. Ma è facilmente prevedibile che questo buon intento sia destinato a rimanere sulla carta, data la difficoltà di trovare un lavoro nelle zone dove verrà maggiormente fatta richiesta del reddito minimo. Certamente si tratta di una misura anti povertà ma dovrebbe aver la sua ragion d’essere «economica» nel rimettere nel mondo lavorativo le persone.

Tuttavia nel sistema in cui ci troviamo a vivere si fa avanti una prospettiva molto diversa che riguarda anche la misura prevista dal programma di governo. Nei giorni scorsi è uscita la notizia che nella ricchissima Silicon Valley si sta studiando una forma di «reddito di cittadinanza» da testare su un campione di 3 mila persone. L’idea è quella di farsi trovare pronti nella prospettiva non lontana in cui un’accelerata automazione dei processi produttivi finisse con il ridurre drasticamente i posti di lavoro. Ci sarebbe insomma una garanzia di reddito, che non sarà però più frutto di una prestazione fornita. Che cosa accadrà a un individuo chiamato a vivere in questa prospettiva? Il test americano è stato pensato proprio per capire quali comportamenti prevarranno tra le persone: assisteremo a un totale disimpegno e a vite consumate davanti ai videogiochi o invece le persone scopriranno altri modi per essere utili alla società, creando addirittura più valore di quello ricevuto?

In Italia la situazione che si prospetta è evidentemente diversa. Tra le due situazioni c’è comunque un tratto comune: la parola «lavoro» sparisce in tutt’e due i casi dalla biografia delle persone. Una condizione che l’uomo nell’arco della storia, a partire dalla narrazione biblica dalla cacciata dall’Eden, non ha mai sperimentato. Ma qui, in prospettiva, non c’è nessun ritorno nel Paradiso terrestre...

Allora la vera domanda che ci si deve fare è questa: il lavoro è un fattore ultimamente accessorio o è un qualcosa che definisce l’identità umana? Se si riaprissero le pagine di quel grande profeta della modernità che è stato Charles Péguy non si avrebbero dubbi: l’uomo è uomo in quanto lavora. Senza lavoro si innesca un processo di disumanizzazione. Come motiva Péguy questa sua certezza? Con il fatto che il lavoro è la strada con cui quotidianamente l’uomo può sperimentare la bellezza del fare, che non è finalizzata solo allo stipendio, ma che è anticipo della bellezza del destino finale. «Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene», scriveva Péguy nel suo libro «Il denaro». Péguy diceva queste cose oltre 100 anni fa. Oggi uno dei maggiori sociologi viventi, Richard Sennet, in altri termini rinnova quell’allarme lanciato dallo scrittore francese. Dice Sennett, che senza lavoro avremo davanti «vite senza colonna vertebrale, persone le cui esperienze non vanno a costruire un insieme coerente. Qualcosa di molto circoscritto al nostro tempo, e preoccupante, perché noi esseri umani abbiamo bisogno di una storia nostra, di una colonna vertebrale». Questa, ancor più dei conti, è la vera domanda da farsi davanti all’ipotesi che l’uomo possa fare a meno del lavoro.

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