Il lavoro che torna
e la grande incompiuta

Dal 1968-’69 l’autunno in economia è «caldo» per definizione, ma non è detto che stavolta sia proprio così. Il clima, un po’, sta cambiando e bisogna dirlo con estrema cautela dinanzi alla quota fissa di 3 milioni di disoccupati, 190 tavoli di crisi aperti al ministero e 200 mila posti a rischio, oltre ad un quadro politico che potrebbe evolvere verso l’instabilità. La ripresa, comunque, c’è, s’è affacciata a fine 2016 e ora è certificata dagli istituti internazionali, trainata non solo dall’export ma anche dai consumi, quindi dalla ritrovata fiducia di famiglie e imprese: il PIl viaggia verso l’1,4-1,5% e a fine anno potrebbe guadagnare ancora qualcosa.

La tenuta e l’intensità dello sviluppo sono questioni discusse, specie per i deficit strutturali che ci trasciniamo da anni: cresciamo pur sempre meno degli altri e nel mentre la politica espansiva della Bce di Draghi, prima o poi, è destinata a finire. Stiamo comunque uscendo dalla doppia recessione e da una frattura storica senza precedenti che ha imposto all’Italia una perdita del 25% della produzione industriale e 9 punti di Pil.

Dopo 9 anni si è in fase di rientro e questa copertura, almeno nel medio periodo, potrebbe influire anche sugli stati d’animo collettivi e contribuire a sedare la febbre populista. La stessa legge di bilancio, che si annunciava «lacrime e sangue», potrebbe viceversa confezionare un pacchetto di sostegno ai grandi temi sociali: decontribuzione per i giovani, lotta alla povertà e pensioni. In sostanza c’è un’agenda diversa in corso d’opera: non più sacrifici ma risorse da dare, stabilendo una priorità nella redistribuzione. In questa uscita dai tempi bui, l’occupazione, per una legge fisica, arriva a rimorchio e con molta lentezza, in quanto un recupero soddisfacente si può avere solo con la sponda di una crescita della ricchezza del 2%. Una strada lunga, ma che va percorsa. Il lavoro, tra sofferenze e nuove prospettive, è in chiaroscuro. L’occupazione torna a crescere e si colloca ai livelli pre crisi (siamo a quota oltre 23 milioni), segnalando una vivacità del mercato del lavoro. Aumenta però nei numeri, non nella qualità. L’effetto del Jobs Act sembra al capolinea: i contratti a termine, che la riforma in questi anni aveva arginato puntando sul tempo indeterminato, si sono impennati del 27% sul 2016. Gli incentivi sono agli sgoccioli, la Cassa integrazione (uno strumento rivelatosi decisivo per contenere l’emorragia occupazionale) si sta esaurendo in molte imprese in crisi. La fine degli incentivi coincide quindi con una ripresa del lavoro a tempo: da qui in poi potrebbe diventare un serio problema sia perché la disoccupazione giovanile ha una dimensione intollerabile (35%) sia perché si procede troppo a rilento nelle politiche attive e negli interventi formativi in grado di accompagnare il lavoratore negli alti e bassi della sua carriera. Quella che doveva essere la parte più innovativa del Jobs Act, in pratica è quella che ancora manca all’appello: la grande incompiuta. E qui, in un Paese tuttora privo di un vero e proprio piano industriale ma che può disporre di Industria 4.0 come piattaforma tecnologica per gli investimenti, si aprono alcuni scenari che vanno visti da vicino. La Grande crisi ha cancellato figure professionali, irrecuperabili in quanto non esistono più: un mondo a fine corsa. Le dinamiche del lavoro stanno subendo una mutazione genetica nel quadro di una trasformazione creativa tutta da esplorare: gli studiosi ci ricordano che non conosciamo i lavori e le professioni che ci saranno nei prossimi 20 anni.

Nel frattempo l’intelligenza artificiale, i robot che impatto avranno sui processi? C’è una fascia anagrafica, quella degli over 50, in netto aumento fra i disoccupati: lavoratori maturi fin qui accompagnati con gli ammortizzatori sociali (8 salvaguardie istituite per tamponare le falle della legge Fornero), ma titolari ormai solo dell’ultima chance. E, soprattutto, ci sono i giovani da reinserire nel mercato. Il vero nodo riguarda le politiche attive ancora insufficienti, là dove la Germania potrebbe insegnarci molto: percorsi di riqualificazione per impieghi bassi ma anche per quelli altamente professionali in un universo che cambia troppo velocemente e in modo radicale per essere afferrato. Riqualificazione partendo da una nuova preparazione degli studenti nell’area tecnica, perché quel che chiedono le aziende non è, in modo sufficiente, ciò che offrono scuole e università. Lo si vede anche nella Bergamasca, la seconda manifattura in Italia e in Europa, nonostante i passi avanti compiuti: permane una certa distanza fra domanda e offerta di periti specializzati e ingegneri.

Il lavoro, che riassume formazione e diritti di cittadinanza, dovrebbe essere l’illustrazione più ovvia di una decente realtà quotidiana. Un campo, dove – per riprendere in modo diverso una recente affermazione del ministro Minniti – si gioca la tenuta democratica.

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